La diciannovesima edizione di uno dei festival musicali più importanti al mondo (Barcellona, 30 maggio – 2 giugno) segnerà un punto di svolta “epocale” per la nostra cultura. Lo abbiamo scoperto leggendo Parlarne tra amici di Sally Rooney.
La macchina era rimasta al sole tutta la mattina e prima di poter metterci piede abbiamo dovuto abbassare i finestrini. All’interno c’era un odore di polvere e plastica surriscaldata. Mi sono seduta dietro e Bobbi ha sporto la sua faccetta dal finestrino del passeggero come un terrier. Nick ha acceso la radio e Bobbi ha tirato dentro la testa e ha detto: non hai un lettore cd? Possiamo ascoltare un po’ di musica? Nick ha detto: va bene, certo. Al che Bobbi si è messa a scorrere i cd cercando di indovinare quali fossero di Nick e quali di Melissa.
«A chi piacciono gli Animal Collective, a te o a Melissa?» Ha chiesto.
«A tutti e due, credo».
(Sally Rooney, Parlarne tra amici, Einaudi, 2018)
Gli Animal Collective. In un romanzo. Normale, no?
Qualche mese fa, leggendo questo (non) dialogo – tipico – di Sally Rooney, mi sono soffermato a pensare se lo fosse – davvero – normale. Che in teoria dovrebbe essere più che consueto che un’autrice scriva nel suo libro dei suoi ascolti preferiti e quindi, ad esempio, degli Animal Collective, una band attiva dal 2000 e apprezzatissima nel circuito musicale indipendente a livello mondiale, ma di certo non proprio notissima al grande pubblico. Eppure mi sono stupito. Perché?
Lo scorso anno Parlarne tra amici è diventato una sorta di caso editoriale, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, proprio per la forte aderenza alla contemporaneità della scrittura di Rooney: la giovane autrice irlandese (classe 1991) non si risparmia certo nel raccontare di chat e di mail, come principali mezzi di comunicazione tra i personaggi del suo libro, tanto per fare un esempio. Il romanzo ha fatto breccia tra le generazioni più giovani di lettori, ma ha anche sollevato non poche critiche da parte di chi ci ha visto una “furbizia” commerciale.
Ho cercato di riflettere su tutto ciò mettendo in relazione il mio stupore a questa presunta ruffianeria, e… niente. Non sono assolutamente collegate. La sensazione di sorpresa che avevo provato era del tutto positiva. Anche perché i riferimenti culturali che Rooney inserisce qua e là non risultano mai né forzati, né occhieggianti a mode o trend del momento, checché se ne dica in giro.
La mia è soltanto una mera percezione soggettiva: è come se non fossi troppo abituato a trovare certi piacevoli, vicini e soprattutto attuali riferimenti “culturali” nei libri di recente pubblicazione che leggo. Perché, invece, è bello sentirsi parte di uno stesso mondo. Quel mondo che stiamo vivendo proprio in questo momento storico – che definire “critico” sarebbe un eufemismo – e che ci fa sentire “vicini” anche se viviamo a latitudini diverse. È un po’ come quando vado al Primavera Sound e avverto quel senso di appartenenza che serpeggia tra le migliaia e migliaia di persone giunte a Barcellona da tutta Europa per uno dei festival musicali più importanti al mondo.
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Cosa c’entra il Primavera Sound con il libro di Sally Rooney?
Andiamo per gradi. Intanto, nella mia vita gli Animal Collective li ho visti tre volte e sempre in occasione del festival spagnolo.
E poi… Indovinate un po’ qual è il motto del Primavera Sound di quest’anno? The New Normal.
Una comunicazione semplice che detta però la linea di quello che oggi dovrebbe essere una kermesse di tali proporzioni nel 2019:
Il fatto che in un cartellone ci sia parità tra artiste donne e artisti uomini dovrebbe essere normale.
Il fatto che le barriere di genere e gli stereotipi debbano essere sconfitti dovrebbe essere normale.
Il fatto che tutti i palchi, gli orari e le proposte siano una provocazione dovrebbe essere normale.
Il fatto che la musica delle nuove generazioni debba essere accolta senza dimenticare come ci siamo arrivati dovrebbe essere normale.
Tutto ciò dovrebbe essere normale, almeno da quasi mezzo secolo, e invece, ancora oggi, ci stupiamo quasi fosse un cambiamento rivoluzionario, purtroppo. Tanto da chiamarla “una nuova normalità”. Un po’ come io mi sono stupito a leggere Animal Collective in un romanzo.
E dello stesso avviso sembrano essere anche gli organizzatori del Primavera Sound, che si assumono le proprie responsabilità e fanno mea culpa. Ecco cosa scrivono nel comunicato stampa:
Perché un cartellone paritario proprio adesso? Perché avremmo già dovuto farlo da molto tempo. Perché, riguardando i nostri vecchi cartelloni e nonostante i passi avanti delle ultime edizioni, avevamo bisogno di andare ancora più in là. Se metà del nostro pubblico è femminile, perché non dovrebbe esserlo anche metà del nostro cartellone? Perché non dovrebbe esserci parità anche negli orari, negli stili e sui palchi? Non è stato facile combattere contro l’inerzia che si è perpetrata da molti anni, ma dopotutto se il futuro è donna, perché aspettare? Noi cominciamo qui, accelerando il cambiamento e mettendo insieme un cartellone che non dovrebbe essere un’eccezione e che vogliamo invece trasformare in normalità. Ma non dimentichiamo che questo è solo un cartellone e solo un festival, quel che importa è tutto il resto.
Una presa di coscienza doverosa che diventa una spinta ad agire. Finalmente. E quando a farlo è un festival così importante – i suoi palchi sono stati calcati in quasi venti anni da band, artisti e musicisti che hanno determinato e stanno determinando la storia della musica mondiale – la sensazione che stia cambiando il vento è quanto mai concreta.
È vero, è solo un festival. Ma è un festival che fa dei numeri strabilianti, uno dei più grandi motori culturali nel cuore dell’Europa, che quest’anno metterà in connessione 226 artiste/i e oltre 200.000 persone provenienti da tutto il mondo (tra cui tantissimi italiani). Non è poco. Per niente.
C’è la consapevolezza che mai come quest’anno l’edizione del Primavera Sound rappresenti un vero e proprio punto di svolta. Per capirlo basta scorrere la line up e restare spiazzati dall’eterogeneità di generi musicali. Sempre ben presente l’indie rock – che in qualche modo in questi anni era diventato il portabandiera del festival – ma molto ridimensionato nelle posizioni di maggior rilievo del cartellone. Sale alla grande l’R&B, ma anche l’hip hop, con la trap sempre più presente. E poi il jazz e l’elettronica sperimentale. Ma anche il metal estremo, il punk hardcore e soprattutto il raggaeton, forse la vera novità in programmazione.
Un cartellone unico al mondo, un frullatore artistico di suoni ed estetiche tra le più disparate, se non addirittura agli antipodi (come nel caso del pop impegnato di Janelle Monáe e la furia metallurgica dei Carcass). Una scelta che a prima vista potrebbe sembrare rischiosa, e invece risulta quanto mai attuale: la line up del Primavera Sound fotografa al meglio lo stato della musica del presente, con il rock sempre più in crisi, l’ascesa dell’hip hop e un mainstream sempre più elegante in grado di dismettere i panni del nemico.
Senza pontificare su ciò che sta succedendo alle sette note in questi ultimi anni, il festival spagnolo passa ai fatti. Avrebbe potuto ergersi a vecchio brontolone e intonare la filastrocca del “si stava meglio prima” e invece ha drizzato le antenne e ha intercettato le nuove direzioni musicali dando loro ampio spazio. E senza per questo ripudiare il passato. Anzi.
A convincermi ad attraversare anche quest’anno i cancelli del Parc del Forum è stato soprattutto un nome, che più di tutti mi ha fatto sobbalzare il cuore e fatto tornare nel pieno dell’adolescenza: i Jawbreaker. Capostipiti di certo emocore prima anni Novanta: approccio punk, melodie a cuore aperto, voce sofferta e testi immensi tanto da far valere al cantante Blake Schwarzenbach l’epiteto di “Morrissey punk”. Scioltisi nel 1996 si sono riuniti lo scorso anno per alcuni live negli USA e quest’anno approdano finalmente in Europa. Avrei potuto godermeli anche a Milano (Alcatraz, 29 maggio 2019), però immaginare di vederli per la prima volta in vita mia su uno degli enormi palchi del Primavera Sound col cielo stellato sopra, mentre canto a squarciagola in mezzo a una folla di persone che come me è lì in quel preciso momento per condividere quello stesso amore, è un’esperienza alla quale non potevo rinunciare.
Eppure, forse per la prima volta quest’anno sono veramente poche le reunion di band in grado di creare quell’effetto “nostalgia” che invece negli ultimi anni ha colpito la maggior parte dei festival musicali del mondo, incluso il Primavera. In questa edizione gli anni 80 e 90 sono presenti (Primal Scream, Low, June Of 44, Built To Spill, Stiff Little Fingers, gli immancabili Shellac, Stereolab, Suede, Liz Phair, Stephen Malkmus…), ma in netta minoranza rispetto al presente, se non addirittura al “futuro”. Perché sì, molti dei nomi coinvolti stanno veramente tracciando le traiettorie della musica che verrà, che non si propaga su una sola linea retta ma si allarga a raggiera su più direzioni prendendo le sembianze di un vortice che intreccia e contamina.
Così, dopo aver versato le dovute lacrime sottopalco dei Jawbreaker, me ne andrò a estasiarmi con l’R&B di Solange e il soul di Erykah Badu. Galleggerò sulle malinconie ambient di James Blake sperando che salga sul palco la nuova regina del flamenco sperimentale Rosalía e insieme reaglino al pubblico Barefoot In The Park.
Muoverò il culo con Mura Masa, Sophie, Modeselektor e Robyn. Mi farò ipnotizzare dal flow pop di Cardi B, da quello trap di Future e quelli urban di Nas e Pusha T. Impossibile poi perdersi 070 Shake e JEPGMAFIA, con le loro ritmiche e rime esplosive. Mi smarrirò nel delicato sottobosco indie di Snail Mail e Courtney Barnett e poi nel folk psichedelico di Kurt Vile & The Violators. Tornerò a piangere nostalgia con i Built To Spill e i Guided By Voices. E poi con gli Interpol, senza perdermi FKA Twigs, la furia dei Fucked Up e le armonie sblienche di Mac DeMarco. Per chi ha amato i Fugazi da non mancare i Messthetics. Poi Apparat, i Big Red Machine di Justin Vernon (Bon Iver) e Aaron Dessner (The National), ma anche nomi nuovissimi come Sigrid e i Clairo. E questo è solo uno dei tanti possibili percorsi musicali all’interno del festival.
Sarà importante esserci a questo Primavera Sound: un’edizione che in qualche modo farà da spartiacque tra un prima e dopo questa “nuova normalità”.
Quest’anno non ci saranno gli Animal Collective, ma esattamente a 10 giorni dall’inizio del festival, il 21 maggio, sarà pubblicato in Italia per i tipi di Einaudi il nuovo romanzo di Sally Rooney. E, guarda caso, si intitola Normal People: Persone normali.
Playlist Primavera Sound 2019
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