Out Of The Box | Silvia Rocchi

Silvia Rocchi è forse una delle autrici più prolifiche del fumetto italiano. La sua vastissima produzione – che passa con agilità dall’autoproduzione a progetti editoriali con le maggiori case editrici italiane – è il frutto di un percorso espressivo mai banale, e di riflessioni profonde sulla natura della narrazione disegnata in tutti i suoi formati.
Il suo stile grafico si riconosce per l’uso della luce e lo stile quasi espressionista nelle scelte, a prescindere dal mezzo utilizzato. Immagini espressive ma sintetiche e rigorose, con un che di cinematografico nella composizione, tra il realistico e l’onirico. Le abbiamo fatto qualche domanda sul suo lavoro e ci ha regalato delle riflessioni illuminanti sul mestiere di chi produce immagini, sull’infanzia come momento perfetto per produrre una capsula del tempo e sul gatto di Schrödinger come maestro della fuga.

Nel tuo lavoro c’è una grande fiducia verso il lettore: sulla sua capacità di farsi portare nella storia e nei confronti di scelte grafiche molto personali e specifiche. Quanto pensi sia importante per un autore la capacità di fidarsi dei propri lettori per fare scelte necessarie per le proprie storie?

La fiducia come in tutte le relazioni è qualcosa che si stabilisce con il tempo, i gesti e la volontà. La relazione tra autore e lettore, deve e può essere salda e consolidata grazie alle scelte prese nel tempo. In alcuni lavori l’ho riposta in maniera totale, per la serie: mi prendo la libertà di fare quello che voglio purché i patti di comprensione della storia, la vicenda, siano rispettati, tu però lettore farai lo sforzo di entrarci. In altri ho invece mi sono fidata meno del momento della fruizione e ho cercato di “servire” di più gli elementi sul piatto narrativo. Certo è che sì, tendenzialmente mi piace stabilire determinati vincoli per poi girarci intorno in maniera abbastanza libera e chiedo a te che mi leggi di seguirmi nei miei voli pindarici, se poi ne fai altrettanti e diversi, ben venga. L’importante per me è che il nucleo di un lavoro, il suo significato più semplice e puro al tempo stesso sia quantomeno visibile se non esattamente comprensibile. 

La vita come “materiale narrativo” è molto presente nel tuo lavoro: che siano le biografie a fumetti su cui hai lavorato spesso, o la propria vita personale. Cosa pensi che abbia reso così significativo il vissuto come materia prima delle storie?

Sempre quando racconto impasto storie che ho sfiorato, vissuto, visto, esperito. E in questo senso mi auguro entrino un po’ nel campo della fiction. Ci provo (Susi corre, Brucia), ma hai ragione a dire che la mia vita in un senso o nell’altro ci entra sempre, anche se ultimamente ho virato un po’ la direzione. Fino a qualche anno fa credevo che la convinzione del raccontare la realtà fosse la cosa più importante. Si disegna quello che si conosce. Ed è vero e normale. Certo è anche vero che non posso mettermi dei paletti così stretti. Partirò sempre da un presupposto di conoscenza (ad esempio) di un sentimento per provare a raccontare qualcosa, ma non è detto che ne debba necessariamente aver fatto esperienza. 

In generale se la domanda era riferita a una distinzione più netta, mi viene da pensare che raramente sarò interessata a raccontare qualcosa attinente a generi come l’horror o la fantascienza…ma anche qui, mai dire mai. 

 C’è qualcosa di differente nel modo in cui affronti il lavoro di illustrazione rispetto a quello sui fumetti o per te sono parte di uno stesso discorso su medium diversi?

Diciamo che il primo pensiero ogni volta che mi ritrovo a lavorare su una commissione per delle illustrazioni è sempre: quanto si fatica meno a fare questo piuttosto che un fumetto. 

È becero, lo so ma mi crea un certo cortocircuito buffo. L’illustrazione in via del tutto generale, è spesso più colta del fumetto, si lavora di più di concetto, di composizione, di narrazione intrinseca ad una sola immagine, di scelte cromatiche accurate che sono tutti aspetti molto faticosi a livello intellettivo. So bene che sono due fatiche diverse e non comparabili, è più un gioco tra me e me, che non un vero distinguo. 

Resta vero che il fumettista spesso non si prende tutti questi lussi e non sviscera le potenzialità di ogni singola tavola – sempre in linea di massima – per i tempi di lavorazione, di produzione e di realizzazione. Capita a volte però di trovare qualcuno che queste soluzioni le sa mettere in pratica, ci sono dei fumettisti che applicano quei principi al dinamismo delle scene, alla sequenzialità della narrazione, li considero vette altissime. 

Mi inalbero molto quando leggo certe cose sul fatto che la linea di demarcazione è netta e che difficilmente si può passare da una disciplina all’altra. E talvolta mi ingrigisco quando sento dire queste cose da giovani studenti che dovrebbero poter pensare con massima libertà alle discipline che approfondiscono o che invece sfiorano.

Cosa metteresti in una capsula del tempo?

L’ho provata da bambina, misi dentro a una scatolina la punta della mia matita preferita della Giotto. Me ne sono dimenticata e tanti, (tantissimi) anni dopo l’ho ritrovata, e pare che quel tono di rosa non sia più in produzione. Quindi la capsula ha funzionato. 

Per il futuro vorrei trasformare i miei ricordi in qualcosa di tangibile perché non esistono cose materiali che non si possono trovare (aldilà delle nostalgie varie, cassette, vinili, macchine fotografiche analogiche). 

Ci sono certi ricordi che mi porto nel cuore che vorrei restassero intatti e di nuovo fruibili nonostante il passare degli anni, come fosse uno scrigno pieno di emozioni che riguarderò chissà tra quanto. Pieno di momenti che ho vissuto con i miei amori più romantici, più solenni, passionali, divertenti; con le amicizie, i più buffi, sciocchi, solidali, e ovviamente con i miei genitori, con e per i quali conservo i ricordi più affettuosi di tutti. 

Se potessi incorniciare un momento dell’ultimo anno di cui sei particolarmente fiero, quale sarebbe?

Di quest’anno pandemico ricorderò sempre che mi sono presa tanto tempo per me stessa, per pensare, riflettere, fare il bilancio di tutto, ma proprio tutto. A livello professionale sono molto felice di aver pubblicato con Einaudi Ragazzi “I sepolti vivi” tratto da un articolo di Rodari e rimasto per molto tempo tra gli archivi delle vecchie riviste e poco conosciuto. Ho lavorato anche alla realizzazione di un piccolo librino A5, “Schemi”, un tuffo nella libertà dell’autoprodursi che mi sono concessa dopo tanto tempo. Entrambe sono frutto di collaborazioni con altri autori e questo mi piace molto. Lavorare in solitudine è altamente soddisfacente, ma amo molto anche confrontarmi con gli altri, trovare un punto di equilibrio in questo non è affatto semplice o scontato, e questo mi rende molto fiera, sì. 

Un libro, un disco o un fumetto che hai comprato a scatola chiusa?

Tutti e tre: “Le piccole virtù” della Ginzburg, “Brighten the Corners” dei Pavement, Celestia di Fior, di cui non avevo visto troppe anteprime. Tre mostri sacri per tre discipline diverse ma intrecciate o intrecciabili.

Il gatto di Schrödinger è vivo o morto?

È riuscito a svignarsela prima che lo chiudessero nella scatola, forse l’ha schiacciato una macchina, o forse ha trovato un super gruppo di gatti con cui si diverte un sacco e si gode il sole sui tetti.

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