Il Ritardatario | Ultima Goccia

Ultima Goccia di Andrea De Franco (ritardo: 5 mesi)

Un tratto sottile che ci mette un attimo, per rigurgito, a diventare contorto come quello di certi rovi diabolici. Una sensazione di filo di Arianna per uscire dal labirinto, ma anche di corda tesa per impiccarsi, di nastro per impacchettare le zeppole della festa del Papà. La cosa che ruba l’attenzione in questo libro assai corposo – corre per 200 pagine e passa – è proprio la sua matrice generativa basica, quella cellula staminale nero fumo che è il tratto di penna, lo scorrere dell’inchiostro scuro sullo sfondo sgombro del foglio bianco. Solitamente questa magia gestuale in un fumetto scompare, dato che la diamo per scontata, ma dentro Ultima goccia riappare con forza da caverna primitiva ed assieme un’eleganza degna del progetto Pictoplasma

Se è vero che la protagonista di questo libro è una semplice Tazzina che pensa parla e si muove, l’inchiostro è la base di tutto, perché l’inchiostro fa il caffè, nel senso che lo disegna, e il caffè infonde la vita a Tazzina stessa. L’inchiostro che gira e rigira forma parole, figure e paesaggi. 

Tazzina è già lì, nella prima pagina, in attesa di farsi Tazza di Caffè, nel momento in cui il becco della Caffettiera versa dentro di lei il seme oscuro della vita, che è senso del mondo. Creatura pallida, accelerata da una nigredo caffeinica, Tazzina del mondo se ne fotte subito, la scoperta non gli interessa, gli interessa tautologicamente un buon caffè e soprattutto trovare quel morbido attrezzo da atleti dell’inconscio, comunemente detto letto. Tazzina vuole dormire. 

E qui il desiderio della creatura coincide con la volontà del creatore: Andrea De Franco vuole dormire, vuole proiettarsi nella psicosfera, per godere di quel passaggio intermedio, dove veglia e letargo si infrangono l’uno contro l’altro come flutti di gelatina e si inglobano tra di loro con un sapido splof. Ultima Goccia è una sorta di dancefloor della narcolessia: il caffè è ebrezza, ma Ultima Goccia sembra rarefarsi, come la coscienza che decapitata dalla mannaja dell’incoscienza si percepisce per un secondo o due mentre cade nel capestro dorato del sonno. Quella caduta, quel perdersi vitale ed esiziale, è la vera ebrezza. 

Il caffè venne scoperto da un pastorello, notando che le proprie capre reagivano assai bene dopo aver manducato certi strambi arbusti che erano appunto quelli della pianta del caffè. E l’uomo, volendosi imitare la capra, si ingegna e s’adopera così tanto che da quelle bacche tira fuori la divina bevanda che è ancora oggi il primo passo della giornata nel nostro Occidente sferzato dalla tormenta della sovrapproduzione, ma che all’ebrezza del denaro – come a quello del caffè – non riesce mai a dire di no. Il denaro non dorme mai, recitavano le locandine, e allora nemmeno noi possiamo. L’Occidente allora si deve drogare e il caffè è la droga di tutti per tutti i giorni: centellinato se manca, adorato se abbonda, annusato appena aperto, contestato se sa di bruciato, sprecato se esce male, adulato se fa la cremina – la santa cremina. Se è di marca costicchia, ma se è del Lidl è osceno, se è di miscela preziosa diventa privilegio, che infondo anche un poverello, una volta ogni tanto, vuol permettersi. Si insegna a fare il caffè, si educa ad assaggiarlo, ma in fondo parliamo di una cosa semplicissima: di una droga. Tazzina, protagonista di Ultima Goccia, è quindi per questo un drogato? Per niente. Tazzina è alla scoperta di sé, degli altri, con le papille gustative rivolte verso il mondo a ritmi altalenanti, forse ciclotimica, anche se non è spaventata dalle sfide del reale – perché le ignora ancora – è desiderosa comunque di una copertina con cui assumere il brodo caldo della vita, con tutti i suoi incidenti e i suoi accidenti. 

La funzione del nero in questo libro tutto bianco è la rivelazione. Il filo sottilissimo dell’inchiostro disegna personaggi, espressioni, arredi di casette, figure geometriche che compongono paesaggi, paesaggi che compongono figure geometriche, un inchiostro naturalmente nero che si muove tracciando alla perfezione, inseguendolo quasi, il pensiero del suo autore/creatore che si permette di tutto, respiro e apnea, horror vacui e vacuità completa, dettaglio e astrazione, frequenze basse e salti di tono. 

L’autore di Ultima Goccia, a questo punto ultima goccia d’inchiostro, è, come detto, Andrea De Franco, creatura ibrida tra autore ed editore dal 2016, anno in cui fonda la De Press, casa editrice, forse è meglio dire cameretta editrice, che sin dal logo – un omino che fa spallucce – sembra quasi dire che vabbè son fatto così, che ci vuoi fare, queste sono le cose che amo fare. Oltre all’attività bifronte suddetta lo vediamo attivo nel campo della musica, sotto forma di Undicesima Casa, della grafica, dell’antropologia sociale, del consumo di mandarini sotto i portici di una Bologna disarticolata.

Il viaggio forzato di Tazzina nella nostra dimensione sembra tradursi nel desiderio di De Franco di spassarsela con tutte le forme del mondo, in un gioco di Rubik che non è il cubo ma è, come dire, la pagina, la tavola, la sequenzialità stessa delle vignette, anima appunto dell’arte sequenziale, ovverosia del fumetto. Il grande assente di questo libro pieno di cose è infatti il cosiddetto spazio bianco, al suo posto c’è però il tempo, dilatato o bestemmiante, lento o furente, e di conseguenza la sensazione che le azioni dei personaggi non avvengano, ma si trasformino sotto gli occhi del lettore, come in una sorta di cartone animato ante animazionem

Come quella di Elémire Zolla, che firmò la mitologica raccolta di testi de Il Dio dell’Ebrezza, la mente dell’autore di Ultima goccia sembra essere un labirinto ebbro, pieno di recessi e scantinati, eterno magma in via di condensazione, come una medusa, i cui confini sono fatti e disfatti ad ogni attimo. Al pari di un Roland Topor in tuta adidas, De Franco ci porta dentro e fuori la vita di Tazzina per farci capire che non ci sono davvero un dentro e un fuori, che la verità non ha la V maiuscola ma minuscola e che probabilmente, oggi come oggi, il senso della vita non è più una questione di massimi sistemi, ma sta tutta nel movimento del braccio che allungandosi dal letto afferra il caffè che ci attende freddo sul comodino. 

E a proposito di ebrezza, Ultima Goccia è proprio quella mentina che fa scoppiare il signor Creosote di pythoniana memoria o, se volete, fa traboccare il vaso. E in effetti la misura era colma e stava diventando urgente dare la giusta potenza di fuoco al tremolante autore, editore, forse scrittore, Andrea De Franco, che dopo un’infanzia passata nel dedalo dell’autoproduzione ora può affacciarsi con orgoglio alla battaglia campale della produzione editoriale ad ampio raggio sotto altrui marchio – Eris Edizioni, che crea un libro bello da toccare, che si porta in giro come un vecchio amico. 

Un tratto malaticcio che produce una disciplina cabalistica, al servizio di una storia che sembra un flusso di coscienza, ma che invece è temperata fin nei minimi dettagli, soprattutto in quello che non si dice. Sovvengono anche le formule chimiche, i vecchi schemi degli acidi e delle basi, dove una molecola si lega all’altra in un tango di linee che riecheggiano la fragilità della materia che è vuoto assoluto che danza. Le linee a volte non si chiudono, e paiono allora versi scomposti e analfabeti, a volte si incontrano precisamente come tessuti da un geografo maniacale. Se questo libro fosse un struttura urbana sarebbe di sicuro un sobborgo residenziale, una città-dormitorio, dove tutti stanno nella pace del sonno, in attesa della sveglia per andare a lavorare. 

Punto linea e superficie, era il titolo di un saggio di Vassilij Kandinskij che cercava di rifondare la pittura partendo dalla metafisica della forma astratta, qui potremmo dire che caffè, rave e onde theta cercano di traslitterare un modo di fare fumetti che passa attraverso la sintetizzazione della squisitezza (o della schifezza) dei sentimenti. Quali sentimenti? Se si dovesse scommettere: rabbia, impaccio, disagio, illusione, empatia, frustrazione, vacuità, atarassia, solitudine, desolazione, ma le atmosfere sono talmente sfumate che si potrebbe dire con semplicità che Ultima Goccia è quella luce bluastra e diffusa che arriva in cucina al mattino presto, quando ti alzi per andare a bere da una bottiglia di plastica che si trova in cucina, e che tocca una tazzina bianca di ceramica d’accatto, mentre tutto attorno ogni cosa, e non solo gli esseri umani, è addormentata. Buongiorno tavolo, buongiorno finestra, buongiorno rosmarino secco, buongiorno tazzina bianca di ceramica d’accatto. 

Ultima Goccia di Andrea De Franco (Eris Edizioni)

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