Nippon Folklore: intervista a Elisa Menini

Qual è una delle caratteristiche principali dell’arte se non quella di aiutare a superare limiti spazio-temporali e unire luoghi e culture lontane tra di loro? È questa una delle domande che ci siamo fatti leggendo il libro di debutto di Elisa Menini, Nippon Folklore (Oblomov edizioni), in cui la giovane illustratrice invita i lettori a tuffarsi con lei nel folklore nipponico, attraversando secoli e secoli di storia guidati da racconti popolati da animali, uomini, spiriti e miti che da sempre rendono così affascinante il Sol Levante.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LA PUBBLICITÀ
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LA PUBBLICITÀ
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LA PUBBLICITÀ

Per farlo Elisa si è dovuta concentrare su uno studio tutt’altro che superficiale della storia e della cultura nipponica, nonché approfondire con minuziosa cura la tecnica di produzione e disegno dell’ukiyo-e. Il risultato è un libro che raccoglie miti e leggende e rende omaggio, senza perdersi nell’annoso tema dell’appropriazione culturale (tema sul quale ci siamo soffermati con l’autrice nel corso dell’intervista), a una cultura che di fatto ha influenzato l’arte del disegno come mai ogni altra.

Elisa Menini è stata tra i fondatori del collettivo indipendente Incubo alla Balena, nato nel 2010 sotto la supervisione di Alessandro Baronciani. Proprio durante gli anni di Incubo alla Balena Elisa ha dato alle stampe Momotaro («racconto tradizionale giapponese di un uomo inviato dagli dei a sconfiggere gli orchi di Onigashima»), opera autoprodotta che ritroviamo anche in Nippon Folklore e che qualcuno definì un “gioiellino editoriale”. Con Elisa abbiamo quindi colto l’occasione per parlare della sua passione per la cultura giapponese, dei suoi primi passi nel mondo dell’autoproduzione e ovviamente del suo Nippon Folklore.

Come è nato il tuo interesse per il Giappone e in che modo ti sei avvicinata alla cultura nipponica, allo stesso tempo così distante e affascinante, e alla quale è spesso difficile accedere?

Da piccola, ho guardato tantissimi cartoni animati: oltre a Dodò e l’Albero Azzurro, che occupano ancora un posto speciale nel mio cuore, ero fan sfegatata dei grandi classici, come Sailor Moon, Lady Oscar, Heidi. Mi piaceva un po’ tutta l’animazione ma quelle serie esercitavano un fascino particolare, ero sempre in subbuglio quando terminava una puntata e dovevo aspettare la successiva. Poi, grazie ai miei compagni delle elementari, ho scoperto che esisteva anche una versione cartacea dei cartoni che passavano in televisione e che, se eri fortunato, erano un po’ più avanti con la trama. Così ho iniziato a comprare qualche manga, senza ancora sapere che chi muoveva le fila di queste storie era giapponese. Nei primi anni 2000 era ancora difficile per me avere accesso a internet, e se provavo ad avere delle informazioni sul Giappone, tutto quello a cui potevo fare riferimento era un’enciclopedia geografica di mia nonna. Mi sono avvicinata alla cultura nipponica studiandola nei manga, dove spesso veniva raffigurata l’enorme Tokyo o i buonissimi piatti della cucina giapponese: a 12 anni conoscevo quasi tutte le declinazioni del sushi senza mai averlo assaggiato!

I tuoi primi passi nel mondo dell’illustrazione e del fumetto risalgono al collettivo Incubo alla Balena, grazie al quale sei entrata in contatto con Alessandro Baronciani. Quanto questa esperienza – strettamente legata al mondo dell’autoproduzione – e lavorare con Alessandro ti hanno aiutata a crescere e a formarti artisticamente?

Quando frequentavo l’accademia e seguivo un sacco di lezioni sull’arte concettuale e contemporanea, che trovavo fortemente aleatoria in quel periodo, ero incuriosita dalla capacità di Alessandro di dare una forma concreta ad un’idea. E, soprattutto, di farlo nel modo più “ganzo” possibile. Ho frequentato insieme ai miei compagni del liceo il suo corso pomeridiano in biblioteca, un appuntamento settimanale dove si discuteva sul linguaggio del fumetto e si progettava una rivista di fine corso. Era un esperimento artistico ma anche sociale: da un insieme di amici, poteva nascere un gruppo di lavoro? E in caso fosse nato, dove sarebbe potuto arrivare? Incubo alla Balena è stata sicuramente la mia culla, dove con la forza del gruppo e la determinazione personale ho avuto modo di capire il mondo dell’editoria, con tutte le diversità che intercorrono tra l’autoproduzione e il lavoro contrattuale. Vedere lavorare e osservare da vicino un professionista come Alessandro è sicuramente una delle scuole migliori che si possano fare.

Restando sul tema dell’autoproduzione, quanto credi sia importante nel contesto italiano preservare questo spazio e tutte le esperienze a esse legate? Penso ai numerosi festival di autoproduzione, fucine di interessanti progetti e talenti che spesso aiutano a interfacciarsi con realtà fuori confine.

Se penso alle cose che ho fatto finora e alle opportunità che abbiamo avuto con Incubo alla Balena, non posso non pensare che siano stati fondamentali i festival e le situazioni a cui abbiamo avuto modo di partecipare. Quindi sì, ben vengano i festival, dove non sempre la chiave del successo è nell’istituzione, ma in chi ha la cura di organizzarli: una su tutte, Sara Pavan, che con InKitchen ha portato l’area Self del Treviso Comic Book davvero ad un livello superiore.

Una delle storie illustrate in Nippon Folklore, quella dedicata a Momotaro, risale al 2015, quando lo desti alle stampe per Incubo alla Balena. Definito un «gioiellino editoriale di grande formato in bicromia, serigrafato e rilegato a mano», esso rappresenta una perfetta sintesi di quella che è l’autoproduzione. Che differenze hai notato nel passaggio dall’autoproduzione a una casa editrice vera e propria?

Con Momotaro, ho voluto mettere in pratica tutti gli insegnamenti che la formazione alla Scuola del Libro mi aveva dato: avevo a disposizione un paio di telai per serigrafia, un garage e una sana dose di follia. Ma soprattutto, avevo a disposizione del tempo: l’autoproduzione può permettersi di non avere scadenze e di seguire un po’ l’ispirazione. Quindi mi sento di dire che la differenza principale che ho riscontrato lavorando con una casa editrice è stato un sostanziale cambiamento nella gestione del tempo. Che non è necessariamente una cosa negativa, anzi, nel mio caso mi ha spinta verso una velocità che non pensavo di avere. Essendo il mio progetto già avviato, una volta approvate le nuove matite, Oblomov mi ha lasciata libera di gestire le pagine, l’indice e la copertina. Un grande aiuto è stato quello di avere la revisione del testo curata in maniera impeccabile, e cosa non da poco, avere una casa editrice ti esula dal dover prendere accordi con la tipografia, fare preventivi e distribuire il lavoro.

Parlando del tuo stile: leggendo Nippon Folklore appare evidente un tuo “omaggio” a quella che è la tecnica di produzione e disegno giapponese, in particolare quella ukiyo-e. Cosa ti ha convinto ad adottare questo preciso stile, rispetto a quello che forse era un più comodo metodo di disegno occidentale?

Le ukiyo-e sono delle stampe policrome su carta, realizzate con matrici in legno che hanno avuto una grandissima distribuzione grazie alle elevate tirature che ne hanno abbassato il costo. Raffigurazioni di vita quotidiana, paesaggi, spiriti che hanno iniziato a diventare molto popolari sin dai primi del Settecento. Quando le ho viste dal vivo, a Palazzo Reale a Milano un paio di anni fa, mi hanno subito colpito per il loro essere opere molto semplici in apparenza, ma incredibilmente complesse dal punto di vista cromatico e compositivo. Ho subito pensato che un fumetto realizzato con gli stessi presupposti, ovvero che less is more sarebbe stato molto interessante per il lettore, anche se un po’ più complesso per me. In genere, per una tavola completa impiego circa tre giorni.

Nippon Folklore è un viaggio nella tradizione del Sol Levante, ma una delle caratteristiche principali è quella di saper unire la “serietà” storica a quella che tu stessa hai definito la «scherzosità dei bambini»… quanto è stato difficile e come credi di esserci riuscita?

La leggenda giapponese ha archetipi differenti e a volte diametralmente opposti, rispetto alle nostre fiabe classiche: l’happy ending non è sempre scontato, e spesso la narrazione è ciclica, l’inizio coincide con la fine e viceversa. Non si finisce mai di imparare, e nel mio approccio a questo genere narrativo è sempre stato molto attento, soprattutto per non fare scivoloni in ambito iconografico e testuale. Se da una parte sono rimasta piuttosto formale per quanto riguarda lo sviluppo e la scrittura delle storie, la spensieratezza emerge nel disegno e nella caratterizzazione dei personaggi. Mi sono divertita molto a costruire le pagine, specialmente quando dovevo raffigurare una trasformazione o un momento importante.

A quale dei racconti presenti in Nippon Folklore sei più legata?

Momotaro è indubbiamente il racconto che mi ha avvicinata a questo genere, e gli sono grata. Se mi fossi approcciata a una storia diversa, probabilmente l’avrei interpretata con meno consapevolezza e disciplina: su Momotaro ho fatto una grandissima ricerca stilistica, vista la moltitudine di personaggi, che mi ha dato le basi per interpretare al meglio tutte le storie a venire. E poi, mi ha offerto l’opportunità di disegnare dei vecchietti, un ragazzo, tre animali e degli orchi tutti nello stesso frangente! Di certo non mi sono annoiata.

Recentemente su Noisey è stata pubblicata un’intervista a Davide Toffolo sul suo ultimo libro Il cammino della cumbia. Il fumettista è stato messo all’angolo dall’intervistatrice che lo “accusava” di appropriazione culturale (stessa sorte è toccata a Berliac e al suo Sadboi). A ben vedere anche tu e la tua opera potreste correre questo rischio. Come ti difenderesti da un’accusa del genere?
E cosa pensi più in generale del tema appropriazione culturale?

Non avevo pensato a questa eventualità. Se mai un giapponese rivendicasse come di sua proprietà intellettuale le vicende che ho scelto per il mio lavoro, anche se non penso possa mai accadere, gli chiederei se in qualche modo ho screditato la sua tradizione. Ma non mi sentirei in dovere di difendermi, anche perché lavoro con i piedi di piombo (come Davide, che nel suo lavoro è stato molto accurato) e sempre con l’intenzione di fare qualcosa di interessante. Un esempio che può racchiudere tutta la questione è il seguente: sulla rivista settimanale Weekly Shonen Jump, è da qualche tempo che ha acquisito popolarità Shijunki Rennaisance! David-kun (La pubertà del Rinascimento! David). Il titolo promette bene e in effetti si tratta di un manga dove la classica trama che ha come protagonista uno studente innamorato della ragazza più popolare della scuola, viene resa intrigante dal fatto che l’autore, Yushin Kuroki, li ha rappresentati come un David di Michelangelo e la Venere di Botticelli. In quanto italiani dovremmo andare su tutte le furie a vedere il David con i lacrimoni perché prende una pallonata durante l’ora di educazione fisica e invece è doppiamente esilarante perché funziona (e diverte) nonostante sia completamente decontestualizzato.

Ultima domanda: ci sono artisti e opere provenienti dal Sol Levante che ti sentiresti di consigliare ai nostri lettori?

Sono fan sfegatata dell’horror e del manga d’autore, consiglio quindi vivamente l’acquisto di tutti gli albi usciti in Italia di Junji Ito e Suehiro Maruo. Anche Kazuo Kamimura, con L’età della Convivenza, che è uno splendido spaccato sui sentimenti di una coppia di fidanzati. Trovo molto belli anche i titoli usciti per la collana Gekiga curata da Coconino. Seguo molti autori esordienti su Instagram, ma non ne ricordo il nome: cerco sempre di non guardarli a lungo perché ne vengo immediatamente influenzata.

Subito per te un buono sconto del 10%,
iscriviti alla newsletter!

ISCRIVITI