Ogni libro ha una copertina. Alcune copertine hanno una storia, in alcuni casi molto interessante. Quando si tratta di un libro che ha venduto circa 65 milioni di copie e continua a venderne circa un milione l’anno nonostante sia uscito più di mezzo secolo fa, un libro che è diventato un’icona culturale per tre generazioni, forse vale la pena di raccontarla e di divagare.
Nel 1951 Jerome David Salinger pubblica The Catcher in the Rye per Little-Brown & Company. Sulla copertina della prima edizione, disegnata da Michael Mitchell, un artista canadese, amico e vicino di casa dell’autore nel periodo in cui scrisse il romanzo, campeggia un cavallo da giostra di un rosso-aranciato fiammeggiante. L’immagine, voluta dall’autore stesso, fissa nell’immaginario del potenziale lettore uno dei momenti topici del romanzo, quando Holden Caulfield porta sua sorella Phoebe a fare un giro sulla giostra di Central Park.
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Sul retro della sovraccoperta della prima e della seconda ristampa una delle pochissime foto di Salinger, uomo dalla riservatezza quasi leggendaria. Il romanzo ebbe subito un immenso successo e l’autore si concentrò sull’involucro esterno del libro: andava ripulito da tutto il superfluo. Dalla terza ristampa della prima edizione in poi Salinger chiese e ottenne che la sua foto venisse rimossa. J. D. diventa ufficialmente un fantasma, un nome su una copertina. Una nelle tante storie nella storia legate a The Catcher in the Rye è quella dell’autrice di quell’immagine, la fotografa e regista Lotte Jacobi, ebrea tedesca emigrata negli Stati Uniti dopo l’ascesa del nazismo. Ritrattista di fama internazionale tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, decise poi di dedicarsi al ritratto delle persone comuni, con particolare attenzione a bambini e immigrati, all’insegnamento della fotografia e all’attivismo politico tra le file dei Democratici.
Quando l’opera venne ripubblicata in edizione economica nel 1953 per i Signet Books di New American Library, Salinger gradì pochissimo l’illustrazione in copertina che ritraeva la fisicità di un Holden Caulfield mai descritta nel corpo de romanzo. L’autore fece valere la clausola contrattuale per cui sulle successive edizioni non sarebbe più dovuto comparire nulla in copertina se non il suo nome abbreviato e il titolo dell’opera.
Ormai il romanzo viveva di vita propria e una volta venduto all’estero si pose anche l’annosa questione della traduzione del titolo, altra storia nella storia.
Il titolo originale The Catcher in the Rye nasce dall’interpretazione fuorviata del verso di una canzone di Robert Burns, Comin’ Thro’ the Rye:
«Gin a body meet a body
Comin thro’ the rye,
Gin a body kiss a body,
Need a body cry?»
che compare per la prima volta nel capitolo XVI storpiata nella bocca di un bambinetto «if a body catch a body coming through the rye» e con questa storpiatura diventa ispiratrice di un sogno che Holden racconta alla sorella Phoebe nel capitolo XXII, nel quale il ragazzo immagina di prendere al volo dei bambini che giocano in un campo di segale, completamente inconsapevoli di trovarsi a rischio di caduta in un burrone.
Se in molte lingue il titolo è stato tradotto alla lettera in modo più o meno felice, in italiano non fu possibile.
Nel 1952 The Catcher in the Rye è pubblicato per la prima volta in Italia da Gherardo Casini Editore, con il titolo Vita da uomo e il nome per esteso dell’autore in copertina. Sul piatto un giovane uomo con una giacca gialla e un cappello blu ritratto da Van Gogh. È Armand Roulin, nel 1888, quando aveva diciassette anni, ma l’espressione serissima lo allontana dalla verve testuale del quasi coetaneo Holden Caulfield. Sull’aletta della sovraccoperta una foto di Salinger.
A proposito della traduzione le vicende legate al primo traduttore italiano sono ancora una volta singolari: Jacopo Darca, che nel 1953 ha al suo attivo varie traduzioni e interventi critici, è lo pseudonimo adottato da Corrado Pavolini, regista, scrittore e critico letterario, fratello di Alessandro, segretario del Partito fascista e ministro dell’Interno nel periodo della Repubblica Sociale Italiana, fucilato a Dongo con Mussolini. Da molti Corrado Pavolini viene considerato «uno dei più importanti tramiti tra l’Italietta prima fascista poi neorealista e la cultura internazionale» (Gina Guandalini, 2014). Un traduttore di spessore, scelto per la sua connotazione di genere che produsse una traduzione in linea.
La Vita da uomo del titolo è quella dell’adolescente che teme la vita adulta ma ne è attratto e la vuole sperimentare a tutti i costi nei suoi giorni a zonzo per New York. Un titolo e una lingua perfettamente in linea con il neorealismo di una nazione sconfitta e prostrata, ma lontanissimo dallo spirito profondamente americano del romanzo di Salinger, un libro pubblicato in Italia con troppo anticipo sui tempi e «[la traduzione di Darca] aveva avuto scarsa eco, perché non era ancora scoppiato il boom americano che oggi ce lo rimanda con il prestigio di un fortunatissimo best seller» (Geno Pampaloni, 1961).
Rimane un mistero di come questa prima edizione sia uscita senza l’autorizzazione dell’autore.
Tirato in un migliaio di copie, venduto in poche centinaia, se ve ne capita a tiro una che costi meno di qualche centinaio d’euro compratela, è un vero affare.
Bisogna aspettare nove anni, il 1961, per una seconda edizione in italiano del romanzo. Chi si è battuto con tanta tenacia per ottenerne i diritti e trovare un traduttore lavorava a Torino, in via Biancamano, per Giulio Einaudi Editore. C’è chi sostiene che la prima idea fu di Carlo Fruttero ma che fu Italo Calvino a insistere tanto, ma ormai non si trattava solo di pubblicare un best seller, ma di farsi portatori di un’icona culturale con la quale anche l’Italia doveva fare i conti.
Il primo scoglio fu il titolo. Marisa Bulgheroni, la prima traduttrice a cui si rivolse Calvino, rifiutò l’incarico per il timore di banalizzarne la lingua e di ridicolizzarne il titolo.
«Con quale immagine rendere il gesto esatto di chi – come Holden in un suo sogno – afferra i bambini in corsa per un campo di segale prima che cadano nell’inatteso precipizio? Come tradurre alla lettera quella speranza impossibile di salvare l’infanzia – la propria innocenza – dal burrone dell’età, dalla falsificazione della vita adulta?» (Marisa Bulgheroni, 2010)
Fu la volta di Adriana Motti che affrontò il testo con disinvoltura e coniò una lingua apposita per tradurre lo slang di Holden Caulfield – puoi trovare qui un’intervista che le fece Luca Sofri nel 1999 per Diario -.
Il titolo è oggetto di una nota iniziale dell’editore, in cui si spiega che è sostanzialmente intraducibile se non come L’acchiappatore nella segale, Il coglitore nella segale o Il pescatore nella segale. Ma anche che catcher e rye non evocano solo il mondo agreste, ma anche quelli dello sport e dell’alcol. Il catcher è il ricevitore del baseball, cioè quello che con guantoni, pettorina, maschera e elmetto sta dietro al batsman, il battitore, con il compito di ricevere la palla dal pitcher, il lanciatore, nel caso non venga respinta dal battitore. Il rye è il whisky-rye, il whisky ottenuto dalla fermentazione della segale. In questo caso il titolo suonerebbe in italiani come Il terzino nella grappa. Capirete perché alla fine il titolo italiano è il nome del protagonista, Il giovane Holden.
Nella prima traduzione Einaudi i brani topici legati al titolo sono resi così:
Tu scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno
cap. XVI
«- Sai quella canzone che fa «Se scendi tra i campi di segale, e prendi al volo qualcuno», – Io vorrei…
– Dice «Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno», – disse la vecchia Phoebe. «È una poesia. Di Robert Burns.
– Lo so che è una poesia di Robert Burns.
Però aveva ragione lei. Dice proprio «Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno». Ma allora non lo sapevo.
– Credevo che dicesse «E ti prende al volo qualcuno», – dissi – Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intoro non c’è nessun altro, nessuno di grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo […]. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo.»cap. XXII
Sulla copertina della prima tiratura della prima edizione, pare per volere di Giulio Bollati, spicca il disegno di un ragazzo che mangia un cono gelato. L’autore è l’artista statunitense di origine lituana Ben Shahn. Salinger non la prese bene. Tramite Eric Lindner, suo agente italiano, sul quale a sua volta ci si potrebbe imbastire un romanzo, fece sapere alla casa editrice che la copertina doveva essere bianca. Senza sinossi. Senza biografia dell’autore. Bianca, per non distrarre il potenziale lettore dal contenuto del testo. Bianca, capito?
Nel 2012 Einaudi commissiona a Matteo Colombo una nuova traduzione de Il giovane Holden – che non ho ancora letto –. Ci ha lavorato due anni con le dovute cautele, affiancato da Anna Nadotti.
Sul sito di Einaudi trovate stralci del loro carteggio, sono molto divertenti e rendono l’idea della cura e dell’ansia di quando si deve affrontare un mostro sacro e della follia ipercritica che deve abitare dentro di te per accettare e portare a termine un lavoro simile.
Salinger avrebbe apprezzato.
Bellissimo articolo.
Letto in quarta liceo, e lo scorso luglio ho comprato la nuova traduzione e riletto Holden tutto d’un fiato.
Ho tremato come allora, nonostante i vent’anni trascorsi!