Un Paese di Cesare Zavattini e Paul Strand (la ristampa è uscita sei mesi fa, ma la si aspettava da quasi 70 anni)
Il libro comincia con la storia di Paolina, una leggenda quasi, giovane creatura che per amore si finisce nel fiume Po. Il suo corpo eternamente sepolto tra le sabbie di quell’ansa sinuosa che ha preso il suo nome: l’ansa della Paolina. Ed è come se fosse una dedica al Po che è principio e conclusione di tutte le vite e di tutte le cose, da quelle parti. Dalle parti della Emilia, tra il ’52 e il ’54 del novecento, a Luzzara, il paese che è Un Paese.
Come se fosse una raccolta di leggende, si può sfogliare questo libro, che è leggendario: dato di nuovo alle stampe, da Einaudi, con grande sollievo per noi eterni ricercatori squattrinati (le quotazioni dell’edizione originale tendono ai mille euro). Tra le pagine scorrono 88 immagini in bianco e nero: bestiario non medioevale, ma di un’epoca trapassata, testimonianza di un passaggio fatale, di un mondo che segna il passo innanzi ai cambiamenti inesorabili. Bestiario fatto di sguardi in camera, di mani e di panciotti, di attrezzi, finimenti di cuoio, biciclette, riflessi sull’acqua, muri, sedie, finestre, ma anche di incorporeo, di dolore, di lavoro, di speranze.
Un Paese è il primo libro fotografico italiano. È il 1955 quando appare nelle librerie. Circa tre anni prima Paul Strand, fotografo, e Cesare Zavattini, scrittore, si conobbero. Strand, nato alla fine dell’ottocento, era più grande dell’italiano di dodici anni ed è lo stesso Zavattini a descriverlo come un totem vivente, un patriarca, che porta con sé un’atmosfera di quiete e assieme di ieraticità. Il grande fotografo, esule per sottrarsi alla caccia alla streghe del maccartismo statunitense, vuole fare un libro sui luoghi italiani e Zavattini sembra proprio l’uomo perfetto per dare ordine e struttura al vago progetto. Lo scrittore, già mattatore di tanti progetti e visioni innovative, dopo tanto pensare si focalizza su di un paesello che conosce e non conosce: Luzzara. È il paese della sua infanzia, lì la sua famiglia ha un caffè-bar-albergo, ma Zavattini l’ha lasciata all’età di nemmeno dieci anni, per andare a vivere da una zia a Bergamo. Le radici però chiamano ed il legame viscerale si rinnova. Vi torna, con Strand, e, non senza iniziale fatica, la riscopre. Nel volgere di un paio di anni la missione sul campo è risolta e il libro uscirà per Einaudi, come il primo libro di un’intera collana strapaesana chiamata Italia Mia, diretta dallo stesso Zavattini. Della collana non se ne farà niente, ma nasce comunque il mito: Luzzara, sonnecchiante nella sua incoscienza, diventa un oggetto fotografico, come la Scanno abruzzese immortalata da Cartier-Bresson, e viene studiata, osservata, contemplata da tanti strani individui con il passo lento e la macchina fotografica al collo: Strand ovviamente, la sua consorte Hazel Kingsbury Strand (autrice di un curioso Un Paese “alternativo” a quello del marito), Luigi Ghirri, Stephen Shore, Gianni Berengo Gardin (al fianco di Zavattini per Un Paese, vent’anni dopo) Vittore Fossati e tanti altri.
Nello stesso anno d’uscita di Un Paese, il mitico Robert Frank dà alle stampe The Americans, una cavalcata attraverso 48 stati degli USA, che va a costituire un reportage visivo servito dai testi visionari di uno scrittore del calibro di Jack Kerouac. Nonostante la consonanza della data e l’intuizione di unire la letteratura alle immagini, i due lavori si distinguono nettamente l’uno dall’altro. Se il lavoro di Frank è monumentale, quello di Strand è parco, dove lì c’è una nazione che si proietta nel futuro, qui c’è un paesino che di diluisce nel tempo.
Un paese è ambizioso e la sua realizzazione impegnativa. Nell’introduzione Zavattini ci descrive il modo in cui l’espertissimo Paul Strand, che aveva attraversato la fotografia della prima metà del secolo con la forza della ricerca costante, l’abbia tirato dentro il suo gioco. Zavattini è tentato ad andare a caso nella scelta e pescare con un colpo di fortuna dalla cartina dell’Italia il luogo dell’esperimento fotografico, ma alla fine non azzarda tanto, forse anche rispettoso delle esigenze di Strand. Dopo aver deciso che Luzzara è la candidata, Strand passa al setaccio i luoghi dell’infanzia di Zavattini per molte settimane in sella ad una bici prima di dire allo scrittore “Ok, è questo il posto.” Per realizzare i suoi scatti, si trasferirà in paese per quasi tre anni.
Pezzi di mondo del ventesimo galleggiano nel ventunesimo secolo. Un cappello in un armadio, un muretto a secco sulla statale, un vecchio che fuma una pipa a casa della nuora. Li osserviamo volentieri, chissà perché? Come il secolo scorso si fonde col presente anche oggi, così Strand, lì a Luzzara, nel 1950 e passa, cerca quel congiungimento, quel punto di sutura che chiamiamo presente, tra il passato e il futuro. Indaga per dettagli: un muro pieno di roncole e falci serve ad introdurre l’arrotatore di paese, uno sguardo d’occhi piccoli a fotografare il vizio del vino in un maniscalco. Il tedesco-americano raccorda per vedute: il sole malato della val Padana, perennemente schermato da nubi, il Po che si gonfia, tra una cortina di nere cime d’alberi e i mucchi di fascine.
Ci sono sentimenti: nonostante il piglio di Zavattini a mantenere la giusta distanza, il cuore trapela. A parte il curiosare negli affari altrui, che è la misura del mondo per l’indagatore neorealista, a parte l’amore e l’affetto per i topos della sua infanzia, c’è il piacere masochista della contemplazione del Tempo. Certi stralci di discorso scelti proprio perché pieni di un sapore che rimanda all’incertezza, l’evidente povertà di una società destinata all’evanescenza di fronte al nuovo che avanza, la scelta di riportare in coda i temi dei ragazzini della scuola elementare di Luzzara, fruttano un senso di amara nostalgia, una nostalgia preventiva, una prestalgia, cioè di qualcosa che c’è ancora, ma si sa che presto non ci sarà più.
Accenni, sottrazioni, intuizioni. Strand e Zavattini trattano la materia con sublime semplicità (foto frontali, tono colloquiale), proprio per entrare in contatto con la profondità delle cose. Zavattini ora esalta, ora fa da cornice alle visioni di Strand. È una bella corsa tra i due geniacci.
Un Paese è sì un libro di parole e di immagini, ma anche di numeri: biolche, prezzi, rendimenti, percentuali, bilanci annuali, ammontare di pensioni e affitti. Mi viene in mente la mitica domanda di Zavattini: “Quanti spicci ha in tasca?” e che calibra la rapace ironia del flâneur della chiacchiera stradaiola.
Sfogliando questo catalogo di vissuti di ex-viventi, di questi atomi di storia, si respirano tutte le illusioni e le aspettative di un Italia che sarebbe venuta. E come sarebbe venuta, soprattutto, lo sappiamo bene noi che l’abbiamo veduta. Sarebbe cresciuta una nazione non più contadina, ma industriale, che avrebbe abbandonato la via certa per quella incerta, regalando ad alcuni la ricchezza e privandola ad altri, in un balletto incostante e cieco, che chiamiamo progresso. Viene facile osservare Luzzara e pensare che quei tempi andati, con i suoi ritmi circolari e precisi, che pian piano già stavano inceppandosi, erano migliori, più sani, per lo meno più orgogliosi, più sinceri di quelli attuali. Ma questa sarebbe una visione miope. E poco interiore. Questo libro documenta il lento slavarsi di un’epoca perché quell’epoca era già morente. E Strand e Zavattini lo sanno. Sanno anche che quell’epoca cede il passo non perché fiduciosa, ma solo perché è stanca. Stanca e stremata dal lavoro, che è difatti il nuce, il cuore delle note che riporta fedele la penna di Zavattini.
Una cosa che mi ha colpito di questo libro è che non ci sono preti. Istantanea di certo di quegli anni impegnati e anticlericali, ma non trovare il Don Camillo di Luzzara, come se il paese fosse composto solo da manovali, contadini e pochi fortunati assunti al comune o che hanno la licenza per aprire una farmacia, è una mancanza che balza facilmente all’occhio. Zavattini e Strand non andavano d’accordo con i parroci, ma forse tra i due il più radicale era proprio il fotografo. In effetti sfogliando Un paese vent’anni dopo, il seguito di Un paese, in cui Zavattini si avventura a Luzzara affiancato dall’obiettivo di Gianni Berengo Gardin, alla ricerca di quelli che ha lasciato venti anni prima, ecco che subito un prete in nera toga e con nero tricorno, spunta da sotto un porticato, come una figura di animale notturno svelata dai fari di un’automobile. Anche questa minima scelta, è il segno del tempo che passa, che cambia, che muta volti e paesaggi e, soprattutto, stempera ideologie.
Zavattini nell’introduzione, che vale come saggio sulla sua infanzia e sul suo modo di osservare il mondo, ci fa presente che dall’operazione sul campo alla correzione finale del libro qualcuno è morto, lo spazzino si è motorizzato, qualcun altro ha aperto una fabbricuccia: suggerisce che il libro, il testo scritto, rimane sempre indietro, giacché tutto scorre e si precipita la vita.
Giunti alla fine rimane la sensazione di essere stati lì, al fianco di Zavattini e Strand, per strade e contrade, a chiedere permesso, inventarsi scuse, fare le presentazioni e poi accordarsi sul fare qualche domanda, anche indiscreta. Un po’ la stessa sensazione che mi rimase alla fine di un Un viaggio in Italia di Guido Ceronetti. Lui, tra il 1981 e il 1983, aveva girato lo stivale a piedi o in bus, di albergo in albergo, ma, al contrario di Zavattini, senza rivolgere parola a quasi nessuno, rapito dal suo dialogo intimo riportato nei sottili, impagabili appunti di quel libro che sarebbe stato a pennello nella favoleggiata collana Italia Mia di cui si accennava sopra.
«Un paese si può leggere come la nomenclatura utile per svelare il codice segreto degli elementi compositivi di un paesaggio» – per dirla con Luigi Ghirri. E Ghirri di questo lavoro era un fan, un grande fan. Tanto da curare la pubblicazione nel 1989 una sorta di backstage di Un Paese, ad opera della mano assai speciale di Hazel Kingsbury Strand, moglie di Paul. Strand, Luzzara è composto da 71 fotografie che compongono una ricognizione alternativa a quella dell’arcinoto fotografo. Alcuni scatti rimandano al realismo sociale del già citato Robert Frank, altri invece ritagliano e riportano alla perfezione la luce e l’aria di Luzzara, in quel fatidico arco di tempo che va dal 1952 al 1954 in cui quel paese divenne stabile domicilio per i coniugi Strand. Riconoscere il debito di Ghirri nei confronti di Un Paese vuole dire riconoscere un collegamento diretto e fondamentale tra l’esplorazione di Luzzara di Strand/Zavattini e il ripensamento totale del paesaggio italiano che l’attività di Ghirri ha composto con la sua intera opera fotografica e non.
Forse non era la poesia l’intento di Zavattini, e Paul Strand non stava cercando esattamente il trasporto quando ha formulato le sue messe in quadro, ma se il primo non esita a replicare il brusio della piazza e della confessione, il secondo compone un lavoro frontale e allo stesso tempo delicato. A queste condizioni, a 70 anni e passa di distanza, secondo me, questa riedizione è la testimonianza di uno slittamento, una traslitterazione. Tutta la Luzzara qui presentata vale come un affresco, di un tempo che si è frantumato e che quasi, potremmo dire, è ormai troncato di netto dato che il passato non lo testimonia più e addirittura lo tradisce, nel rimpianto. È, con questo amara consapevolezza, emerge però il valore nuovo di Un Paese: esso si è spostato in una sfera atemporale, nel campo luminoso della più vivida bellezza e, se vogliamo, della poesia. Segna come un testo di Giorgio Caproni, commuove come una sequenza di Nostalghia.
Luzzara alla fine la conosciamo come le nostre tasche, ma se ci viene la voglia di fare un salto con la macchina fin lì, ci passa subito. Sentiremmo lo smisurato passo del tempo che calpesta quella nostra miserabile voglia infantile. Ci coglie un disastroso senso di paura: chissà cosa possiamo trovarci e quante cose saranno cambiate? Forse è questo spaesamento che rende questo libro uno dei più bei libri di fotografia mai immaginato e mai creato.
Subito per te un buono sconto del 10%,iscriviti alla newsletter!
ISCRIVITI