Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria (Ritardo: 5 anni dalla nuova edizione, 45 dalla prima uscita)
È sempre difficile cominciare una recensione di un libro del genere. Un libro che è stato accostato alle opere di Howard Philips Lovecraft, di Edgar Allan Poe, di William Hope Hodgson, alla paranoia di Philip K. Dick, a Polanski, a Carpenter, a Zulawski, a cult come La Casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati. A calibri incredibili, insomma. Cosa si deve fare? Ignorare i precedenti e cercare di essere oggettivi? Forse, ma con quest’opera essere oggettivi è davvero difficile.
Come si legge nella postfazione di Giovanni Arduino, gran segugio, che è stato alle costole del libro per molti mesi, come testimoniato dal suo Il Diavolo è nei dettagli, “per trama, atmosfera, vita dell’autore, legami, connessioni ed effetti sul lettore, Le venti giornate di Torino è l’unico, autentico, romanzo maledetto italiano”. Lo dico subito, sono dello stesso parere. Arduino ha ragione. Per favore, aggiungetemi alla lista dei fulminati da questo strano volume.
Le Venti Giornate di Torino è un parassita che s’annida nella tua mente e prende a succhiare. Inevitabilmente. Dopo la sua lettura, enigmatica e limpida assieme, ti senti disidratato, riarso. Ti prende effettivamente la febbre, la smania, la sete di approfondire e cercare di capire di più, tanto la lettura è stata magnetica e accerchiante. On line c’è qualcosa, ma non tantissimo sul suo autore, Giorgio De Maria, e qualche recensione sparsa de Le venti giornate, risalenti all’epoca della nuova edizione del 2017. Il passaparola ha fatto e fa ancora la fortuna di quest’opera. In Italia – dato che all’estero ha ben riscosso il dovuto successo. Vulture l’ha messo tra i 100 libri di fantascienza dispotica e Jeff VanderMeer, autore cult di fantascienza e new weird, lo ha definito un piccolo capolavoro. Come è possibile che questo prodotto deviato della mentalità torinese, sfigato e misconosciuto ai più, sia giunto fin negli Stati Uniti? Come c’è arrivato?
Le venti giornate di Torino viene pubblicato nel 1977, dalla piccola casa editrice Il Formichiere. E si ferma lì. Mai ristampato, mai ripreso in mano dal suo autore, mai riscoperto, niente. Il testo era assolutamente perduto, ma il Bizzarro segue vie misteriose. Ed efficacissime. Nel 2014, tra le mani dell’australiano Ramon Glazov, un professore che da sempre intrattiene rapporti con la città di Torino, capita una copia della cupa opera del De Maria. Chi glielo ha consigliato gli dice che è un libro che lo aveva terrorizzato da piccolo e che ancora oggi lo attanaglia. Glazov, fan dell’arcano e dell’incomprensibile, se ne innamora, letteralmente perde la testa, e decide di tradurlo in lingua inglese, prima di un qualsiasi accordo con qualsivoglia editore, tanto è certo che quella perla oscura non avrà problemi a trovare una sponda nel mercato anglofono. Lo fa a ragione: è il 2015 quando termina la traduzione e nel 2016 già esce The twenty days of Turin. Nel 2017, vista la rinnovata attenzione, la casa editrice Frassinelli (strano ma vero: il defunto Carlo Frassinelli, il fondatore, era il vicino di casa di Giorgio De Maria) annusa l’affare e ristampa il volume che rientra in Italia ricoperto dagli allori stranieri. Il libro, all’estero, è un grande successo, soprattutto se paragonato all’oblio italiano a cui era stato condannato per decenni e decenni.
Lo stesso oblio che ha avvolto e ingoiato l’autore, Giorgio De Maria. Personaggio maledetto, forse destinato alla damnatio memoriae dalla sua città natale che è, naturalmente, Torino. Prima musicista afflitto da paralisi psicosomatiche, poi scrittore, anticlericale e corrosivo, poi ancora, dirigente in FIAT e in RAI, da cui viene cacciato per inconcludenza e sciatteria, in seguito alcolizzato, fanatico religioso, visionario, strafatto di psicofarmaci, eternamente alla ricerca di riposo, sonno, pace, infine amaramente barbone, con i nervi spremuti dall’eccesso di triazolam. Si spegne, distrutto, nel 2009. De Maria era già scomparso da tempo, la morte lo ha solo raggiunto. Tra il definitivo dimenticatoio e la rivalutazione di un autore complicato si è messo quindi di mezzo questo Le Venti Giornate di Torino. È questo il relitto che riporta a noi, nel 2017, il nome del suo autore, ben quaranta anni dopo la fine della sua carriera di scrittore: è infatti l’ultimo libro pubblicato dal nostro, prima di cambiare, per l’ennesima volta, vita.
Il libro è breve, si legge in poche sedute, la trama avvincente. L’indagine investigativa, un sicuro escamotage narrativo che assicura l’interesse del lettore fino all’ultima riga di ogni capitolo, procede a spirali sempre più fitte e stringenti.
L’io narrante è un impiegato con l’hobby della storiografia, un personaggio nebuloso, in cui il lettore si può immedesimare facilmente. Egli non ha nome. È un contabile in una nota azienda. Ha una passione per la musica, repressa e balbettante. Vive tranquillo, senza moglie e senza figli, in una dignitosa palazzina con distinti vicini. In questa vita, prevedibile e concreta, diremmo quasi sana, arriva un innocente desiderio. Fare chiarezza su certi strani fenomeni accaduti dieci anni prima in città. In fondo il nostro è uno storico, e portare alla luce la verità è lo scopo di ogni buon studioso, anche di uno amatoriale.
Le indagini sono un azzardo, la materia indagata è corrotta e presto si rivela un ginepraio di reticenze e dissimulazioni. Presto il nostro si rende conto che, dopo un paio di interviste alle persone giuste, sta rimestando in acque che non dovevano essere più toccate. Molti non ne vogliono più sapere di quei giorni efferati, quegli eventi impronunciabili fanno parte del passato e una grande città moderna deve tenere in considerazione solo il suo futuro e la sua crescita. Ma cosa è successo a Torino che non può e, soprattutto, non deve essere ricordato dai torinesi?
È luglio. Da un po’ di tempo si è diffusa in città una strana epidemia, non si sa dovuta a cosa. Fatto sta che molti cittadini scendono per strada a notte fonda, un po’ in pigiama, un po’ vestiti per bene – dipende dall’educazione – e spettralmente deambulano per le strade in uno stato imbarazzante di mezza veglia. La notte del 3 luglio la prima vittima, orribilmente maciullata, di una lunga serie di raccapriccianti assassinii e poi di stragi. Omicidi brutali, eseguiti da forze incalcolabili. I corpi diventano irriconoscibili, afferrati per i piedi e sbattuti a destra e a manca, contro spigoli, pareti, tronchi di ippocastano.
Il nostro scopre che la città non è quello che sembra, che c’è una sorta di teatrino dell’orrore che ne muove i mostruosi organi interni. La rete sociale è il veicolo della contaminazione. Come oggi il social network, nel romanzo di De Maria è una strana istituzione, la Biblioteca, a fare da magnete che tiene stretta a sé la vita di tutti e soprattutto degli altri. Nell’edificio nato dall’iniziativa di sbarbati giovanotti affamati di ordine, disciplina e reazione, nella Torino di quegli strani eventi ripercorsi dal protagonista, chiunque può portare un manoscritto, un quaderno, un brogliaccio, in cui ha depositato le proprie confessioni e, conferendo il proprio memoriale, consultare quello dei propri concittadini. In questa maniera socialità, amicizia, empatia avrebbero dovuto diffondersi a livelli sottili all’interno degli strati sociali.
Si sa, di buone intenzioni è lastricata la strada che porta all’Inferno, ed infatti un losco gioco di pedinamento e paranoia si dirama nell’intera comunità. Nessuno più si fida di nessuno. Isolamento ed individualismo crescono inarrestabili e la metropoli, invece di prosperare, soffoca. Pare addirittura che questa sfiducia nel prossimo disgreghi qualcosa a livello energetico e/o psichico tanto che l’inconscio collettivo rilascia una velenosa nevrosi raprpesentata dall’epidemia d’insonnia. La Biblioteca verrà quindi abbattuta e i suoi testi arsi in un rogo liberatorio. Cambierà la giunta comunale, i ragazzi sbarbati spariranno dalla circolazione. Tutto verrà dimenticato ed apparentemente superato. E pure gli eccidi efferati – collegati alla Biblioteca? Alla malattia dell’insonnia? Alla disgregazione della compostezza e del buon senso sabaudo? – verranno archiviati in fretta e furia.
In questo gioco al rilancio, in questo assurdo romanzo che procede famelico sulla scala della pazzia, questi sono solo gli ingranaggi basilari di una serie di tormentati esoterismi che porteranno Torino, e il nostro protagonista, sull’orlo dell’oscurità più profonda.
La Torino che visitiamo leggendo il romanzo è una Torino doppia. Reale e irreale. Perfetta, ineccepibile, quasi maniacale, nell’indicazione di vie e piazze, convolata a nozze però con il pazzo occhio giallo e la compagine volante del babau di Dino Buzzati. O con la mente macabra del pittore Lorenzo Alessandri, che proprio a Torino ebbe a sciogliere l’inconscio sulle sue tele.
Gli abitanti stessi della città, i torinesi, sono doppi. Vittime e carnefici, sono ora gli zombi insonni che si fanno macellare senza alzare un dito da forze soverchianti, ora i compiaciuti abitanti di una città ottenebrata che si gongola nella dimenticanza. Sono i cattivi del romanzo, viene facile pensare.
Certo è un libro di genere, si indagano gli eventi parossistici avvenuti nella bella capitale piemontese durante un gonfio luglio di dieci anni fa, ma, allo stesso tempo, leggiamo di quanto possa essere riprovevole la vita nella comunità, quanto possa essere esecrabile l’esistenza del buono cittadino, schiavo di quella depravazione di massa che è la società. E quando leghiamo questo sottinteso al fatto che il suo autore sarebbe diventato una scheggia impazzita del sistema, mezzo barbone e messo visionario, arriviamo quasi a toccare con viva mano la forma più profonda del romanzo: un odio strisciante e sconcertante per tutto. Contro tutto. Contro tutto quello che abbiamo ideato per vivere sani.
Forse, il senso di libro maledetto ha la sua scaturigine in questo cuore di rivoluzione totale e inespressa, in questa compressione geologica e nichilista tra due forze mai più opposte: il desiderio di rivolta e l’impossibilità di ribellarsi. Per questa compressione questo libro, a mio parere, brucia ancora.
La lettura scorre avida dentro questo pozzo malato e distorto, tanto il retablo disegnato da De Maria è sconcertante. Un libro malato e perverso, incrinato da una scrittura laida, a dir poco lacerante, che appare sia servizievole sia traditrice. Noi leggiamo, cerchiamo risposte all’enigma, ma siamo come mosche finite in una ragnatela – la bestia oscura si avvicina, mano a mano che procediamo verso il capitolo finale. Pensiamo di aver compreso dove l’autore voglia andare a parare, pensiamo arrogantemente di aver ben intenso i nessi col mondo reale, con la situazione politica degli Anni di Piombo, con la soffocante gerontocrazia italiota che prima castra e poi divora le nuove generazioni, con l’immonda gerarchia della piramide collettiva, che poi non è una piramide, ma una ineluttabile torre medioevale senza scalini, dove chi vive ai piani bassi viene coperto dalla merda dei piani alti – e basta, con il gioco splatter dell’incomprensibile orrore cosmico che arriva a punire l’inetto esemplare umano che vale quanto un pezzo di carne, invece ecco che nell’ultimo capitolo, il blasfemo undicesimo, che rompe i nessi con l’ordine costituito dal decalogo dei comandamenti, ci si spalanca un abisso. Il vero abisso. L’Abisso – quell’abisso che se scrutato, scruta dentro di te. E non se ne va mai, inquina, o meglio, come trielina, intride di uno strano odore ogni nostra azione e pensiero, adulterando per sempre il significato ultimo della vita umana, della Vita, che è un gioco tragico di schieramenti in mezzo ad un deserto di sale.
Le venti giornate di Torino (Frassinelli)
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