Il Ritardatario | L’Arpa Muta

L’Arpa Muta di Edward Gorey (ritardo di 11 anni – portati benissimo)

Si presume che l’opera di Edward Gorey sia ben conosciuta in Italia. In realtà gran parte della sua mastodontica mole di lavoro  – 116 libri, senza contare copertine, locandine e illustrazioni per libri non scritti da lui – è ancora immersa in infauste tenebre, che lo stesso Gorey, comunque, non avrebbe disprezzato. In tempi relativamente recenti, nel nostro paese dobbiamo l’attenzione nei suoi confronti principalmente alle mosse dell’Adelphi che ogni tanto aggiunge qualche gioiello goreyano a I Cavoli a Merenda, la sua collana di volumi illustrati. È grazie a queste – parsimoniose – iniziative che il mercato italiano può godere di classici come I piccini di Gashlycrumb, La Bicicletta Epilettica o L’Ospite Equivoco. Ma tanti altri capolavori (The Evil Garden, The West Wing, The Curious Sofa e l’elenco potrebbe continuare) se ne stanno quieti, davanti al camino, su di un tappeto di dimenticanza. Il volumone della Logos, Raffinati Enigmi, stuzzicante,cerca di fare il punto sul lavoro di un autore che deve il suo fascino al fatto che sia quasi impossibile fare un punto sul suo lavoro. 

Anche se qualcuno potrebbe pensare che fosse coevo di Edward Lear o Henry James, Edward Gorey nasce a Chicago nel 1925. Era un uomo originale, eppure molto routinario. O meglio aveva fatto della sua originalità la sua routine e questa ambivalenza lo rendeva un individuo misterioso e affascinante. Tutti, nel mondo, siamo valutati in base alla nostra elasticità e prontezza di adattamento – come se accettare assertivamente il mondo fosse un valore positivo – mentre lui, schermato dal suo talento, cocciutamente quasi, trovava impossibile cambiare il suo vecchio telecomando solo perché le pile che lo alimentavano erano diventate di difficilissima reperibilità.

Vestiva di pellicce e, per quanti ciondoli, bracciali e brillocchi d’ogni genere portava addosso, faceva il rumore di una decina di cavalieri armati fino ai denti quando entrava in una stanza. Aveva da parte tutto della sua infanzia: le sue scarpine, i suoi vestitini, il suo primo cucchiaino. La madre le aveva ben preservate e lui amorevolmente aveva accettato di custodire quell’ameno museo personale. Laureatosi come un fulmine ad Harvard (non studia disegno, ma letteratura francese e i suoi compagni sono tutti poeti), si trasferisce a New York per occupare un buon posto alla scrivania della redazione della casa editrice Doubleday, dove si occupa delle copertine dei tascabili. Fin da piccolo infatti aveva sviluppato una passione assoluta per l’illustrazione. A 28 anni, nel 1953, esordisce con il suo prima enigmaticissimo libro. Enigmaticissimo soprattutto per i librai – che non sapevano in quale settore posizionarlo.

Questo primo librino è L’Arpa Muta, ed è incredibile per quanto sia già maturo e formato lo stile del suo autore. C’è già tutto quello che l’avrebbe reso fenomeno culturale e di massa: fine tratteggio, personaggi malmostosi, vecchi palazzi, pesanti tendaggi, tappezzerie raffinate, decadenza a gogo ed un’acuta, sinistra ironia che avrebbe conquistato migliaia di lettori cinici e disillusi, ma non per questo senza il senso dello humor – che diamine!

Di cosa parla L’Arpa Muta è presto detto. Parla di un libro, o meglio del processo nevrotico, in qualche maniera però “creativo”, che porta l’ansioso Mr. Earbass, il cui sopracciglio tende sempre alla disperazione, alla scrittura della sua nuova, attesissima opera, per l’appunto L’Arpa Muta – The unstrung harp in inglese, ovvero l’arpa senza corde. Magnifica sinfonia di mille micro psicosi e vezzi d’autore, L’Arpa Muta ci fa seguire lo scrittore alla caccia della sua opera con un tono talmente esagerato e grottesco che, per paradosso, rasenta quasi la cronaca oggettiva. Cosa c’è di più grottesco di scrivere, di fatti? Vedere un individuo adulto baloccarsi con se stesso, bloccato alla scrivania per un numero imprecisato di ore, di giorni, di mesi, a volte di anni, è qualcosa che non si vede tanto facilmente in Natura. Cosa c’è di più strambo di un soggetto che se ne sta piantato su di una pagina, cercando per giorni il finale ad un’opera di fantasia che egli stesso ha reso così complicata da concludere. Da quello amatoriale a quello di best seller, tutti gli scrittori del mondo, nella loro piccola alcova, sono stati almeno una volta l’affranto Mr. Earbass. Angosciato, depresso, ammaliato da sé medesimo, ossessionato, abbattuto, geniale: se la mente di uno scrittore fosse una fonda caverna questo libretto sarebbe la lampada in mano all’esploratore. 

Nel momento in cui alle stringate e crudeli righe goreyane, fustigatrici delle pose degli scriba d’ogni dove, associamo i cinici quadretti che l’autore ha la premura di cesellare con un pennino che pare intriso nel più malvagio degli inchiostri, passiamo direttamente dalla grande opera al piccolo capolavoro. Nei libri di Gorey il bianco e il nero non scolpisce solo i volumi, ma anche le atmosfere. Sarebbero quasi inservibili a colori, essiccati completamente del loro spirito maliardo. Il preziosismo di un candelabro dialoga con il nulla di una stanza vuota e produce quello spirito alla gorey, avvicinando così tanti lettori all’esegesi di una morte che può essere strampalata, romantica, quasi “carina” – ed influenzato tanti autori a venire (uno su tutti Tim Burton). 

La bellezza imperfetta del suo stile di vita si rifletteva perfettamente nelle imperfezioni dei suoi disegni che diventano qualcosa di pulsante e di vivo. L’assenza del colore, i personaggi spiritati, le linee tremolanti, il tratteggio compulsivo sono la formula base di un linguaggio che ha dato vita ad uno stile unico e ineguagliabile. In questo senso Gorey, seppur timido e schivo, è un’artista sincero, aperto, quasi squadernato mi verrebbe da dire. L’agile lettore che abbia la bizza di voler sciogliere l’enigma ha tutti i pezzi per risolverlo ed è lo stesso Gorey che li fornisce, con le sue opere infingarde eppure del tutto trasparenti. Parafrasando Raymond Carver, è tutti i suoi personaggi e lui non è i suoi personaggi – ma la sua intera e singolare opera. 

Qualcosa a metà tra Agatha Christie e una gabbietta piena di pipistrelli faceva il nido nella mente del buon Edward. Surrealismo, film muti, bestiari e abecedari, colpi di scena soprannaturali, personaggi con occhi vitrei da antichi egizi, volti costantemente di profilo come in un teatrino delle ombre. Ed ombre, effettivamente, tante. Spettrali le visioni di Gorey, il cui nome già suona come un gioco di parole macabro col termine gore, che vuol dire qualcosa come sangue stantio, rappreso, come quello sul tappeto dopo un colpo di pistola o una traditrice staffilata alla schiena. Qualcuno pensava che vivesse in un sottomarino o che non esistesse come singolo autore – e lui con le sue molteplici firme anagrammate e i suoi giochi di parole un po’ ci ricamava sopra. A tutti i costi volevano strappargli qualche dettaglio sulla sua vita sentimentale, ma lui non ha mai nascosto il fatto di non provare interesse per le relazioni e di essere probabilmente – tanto era astratta la sua idea al riguardo – omosessuale. Eppure la nostra pruderie ci fa guardare ancora con malizia il volto barbuto di questo signore in pelliccia. Rivelando una mentalità a dir poco da nuovo millennio, Edward Gorey desiderava essere tutto e il contrario di tutto, per non essere etichettato in nessuna maniera. 

A New York andava sempre a vedere il balletto. E i corpi dei suoi personaggi si piegano sempre in agili coreografie. Aveva due cugini, a cui era legatissimo che sono diventati gli inquieti protagonisti di un’operetta inquieta come The Deranged Cousins. Sempre indaffarato in qualcosa, oltre il disegno, lavorava la stoffa – e la sciarpa che sfoggia il suo pinguino de L’Ospite Equivoco, ne è la prova. Di solito faceva bizzarre, informi, bambolette. Le vendeva per 25 dollari. Oggi, va da sé, valgono centinaia di dollari. 

Nel 1979 da New York si trasferisce in Massachusetts, a Cape Cod, nella cosiddetta Elephant House, una grande casa, vecchia di 200 anni – forse una delle case più vecchie della zona. Qui, in larghi spazi e nella frescura marina, si adagia – e adagia il suo mondo – perfettamente. In questa tana gode in santa pace la fama crescente che lo disegnava come un dandy degenerato che univa la schiettezza di un Oscar Wilde all’escapismo sociale di J.D.Salinger

Elephant House era enorme, piena di roba come un uovo, ma lui lavorava in un angolo angusto e isolato, raccolto, mi viene da dire. Come se non volesse avere nessuna distrazione. E di distrazioni ne aveva nella sua bizzarra magione: 25.000 libri, qualche gatto – non, come si pensa, decine e decine, ma al massimo sei – migliaia di dischi e tantissime scatole. C’erano scatole ovunque nella sua casa, anche se la cucina, in particolare, era piena di rocce. Accumulava, ma con sincero interesse e quindi quasi con metodo. Come lasciar andare la piccola tazza rotta a forma di rana? Impossibile. Meglio recuperarla e metterla assieme a tutte le altre cose a forma di rane. 

Guardava la Tv molto spesso, ma solo certi programmi, abbastanza calzanti con il suo spirito misterioso, come X-Files e Buffy l’Ammazzavampiri. Mentre guardava le sue trasmissioni preferite godeva, nel passar il tempo, a lavorare l’uncinetto. Gli venne un infarto un triste giorno, proprio nel salotto della televisione. La leggenda vuole per il conto salato della batteria del suo telecomando – 12 dannatissimi dollari.

L’Arpa Muta (Adelphi editore) 

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