Greta la Matta, illustrazioni di Carll Cneut, testo di Geert de Kockere (ritardo: il libro è uscito nel 2005, ma a me sembra ieri)
La storia di Greta la Matta appartiene al folklore fiammingo. Nasce (forse) dalla deformazione di un racconto agiografico, che vede come protagonista Santa Margherita d’Antiochia. La storia della santa è questa: nella sua cella, mentre veniva tormentata da sgherri pagani, venne visitata da un drago – il Diavolo in disguise – che la inghiottì senza troppe cerimonie per sprofondarla all’inferno. La Santa, armata di spada, squarciò il ventre alla Bestia e si sottrasse all’abisso fatale. L’immagine della santa con la spada rimase nell’aria, tanto che Giovanna d’Arco era guidata dalla sua voce nelle sue imprese contro gli Inglesi.
Greta la Matta non è una Santa, ma è una villana, una contadina che in preda ad una feroce follia si fa strada a colpi di brando nella campagna olandese fino a raggiungere le porte dell’Ade, per fargliela vedere anche a Satana in persona. Greta è un’eroina fuor di sesto, un personaggio che non ha niente della lunarità femminile, ma è una implacabile macchina da guerra che agghiaccia di paura pure i satanassi infernali. Una storia formidabile, tributata da Bruegel il Vecchio che nel quadro, intitolato appunto Greta la Matta, dà il meglio di sé tra grinfie di orribili creature, panorami rosso sangue, città in fiamme e bocche insane, di diavoli e di matte, assetate di devastazione.
Carll Cneut e Geert de Kockere riescono a tradurre la potenza di quel quadro di Bruegel in una serie di brillanti illustrazioni e una storia intensa e controllata come un colpo di lama che taglia un foglio di carta. Poche parole, ma tutte ingrigite del fumo diabolico del caos. E le illustrazioni non sono da poco, fiammeggianti come le fornaci dell’inconscio. La storia della piccola Greta che nasce innocente, poi diventa “una peste” e dopo si trasforma pian piano ne “la matta” perché è il villaggio che costantemente la rimbrotta, la biasima, la giudica, vuole educarla a suon di “non si fa” “non si dice”, è una storia che è tagliente come un bisturi, che ha fatto tremare i polsi a tanti educatori, tanti genitori, tanti critici abituati alla bambagia del mercato editoriale della letteratura d’infanzia.
Risuona nella vicenda di questa fanciulla fatta impazzire, il Vincent Van Gogh del Suicidato della Società di Antonin Artaud (uno che da affascinante intellettuale è diventato davvero il Matto da scacciare, da epurare, da censurare) dove il pittore più che autodistruggesi finisce per essere strangolato da un consorzio sociale che non fa nulla per integrarlo, per accudirlo, per capirlo.
Pregevole la tecnica pittorica di Carll Cneut che ha anche un’interessante valenza allegorica: per realizzare le sue illustrazioni di paesani ribaldi e grassocci, il pittore comincia dipingendone le sagome dando come fondo il nero – sagome nere come sono anime oscure – che poi vengono caratterizzate con il colore: oro, bianco, rosso, colori delle fiandre, colori della ricchezza e della decadenza. Ogni personaggio ha un’anima nera come il carbone, a comporre un mosaico di anime incenerite e inservibili, che non vedranno la salvezza, ma si illudono di essere nella grazia di Dio.
Greta no, la grazia di Dio oramai gli fa un baffo. A forza di sentirsi dire “Vai all’inferno, ragazzina!”, lei prende e ci va all’inferno, pensando che lì, nell’Averno, potrebbe esserci la sua vera famiglia, il suo sposo, la summa di una felicità mai veduta tra le mura del villaggio. Arriva all’Inferno, dove entra sbraitando e con grande clamore urla a Satana: “Prendimi!” – ed è uno dei momenti più schietti e furenti che io abbia mai letto in un libro, che tra l’altro sulla carta è un libro per l’infanzia, adatto dai sei anni in su.
Adelphi con grande coraggio ha portato questo volume in Italia nel 2005, senza molta fortuna. Scartabellando su internet, si trovano recensioni di genitori angosciati da un testo troppo forte, troppo cupo, troppo crudo, al contempo la critica è in solluchero, come mosche che banchettano su di un quintale di zucchero, e parla di capolavoro. Io mi chiedo perché di questi libri se ne vede – almeno in Italia – uno ogni vent’anni? Ce ne fossero di lavori sbilenchi come questi, libri che affascinano e danno sontuosi brividi a qualsiasi lettore, adulto e bambino che sia. E’ una lettura che davvero unisce i genitori con i figliuoli, perché li pone allo stesso magico livello. Greta la Matta fa parte di quel novero di storie com’erano decenni, secoli fa, storie che non hanno un intento soporifero, storie che non vogliono cullarti, ma storie che esorcizzavano qualcosa di oscuro che c’era nel fondo del tessuto sociale, storie che dovevano tramandare qualcosa che avrebbe reso la comunità più forte, anche se con lo strumento spuntato della più nera paura.
Greta la Matta di Carll Cneut e Geert de Kockere (Adelphi Edizioni)
Nel cimitero di Matteo Gubellini (ritardo: 10 anni, tondi tondi)
Cos’è un cimitero? E’ una imitazione di città abitata dai morti. I morti la abitano in maniera del tutto particolare, perché non la vivono con la carne, con le azioni, con il fare, ma la abitano con lo spirito, con i silenzi, con il ricordare. I cimiteri hanno le loro piccole folle, e le loro dimore, che sarebbero le cappelle abitate dalle sue famigliole, tutte sospese nel tempo. Non giovano le strade in questa città ai propri cittadini, ma solo ai loro visitatori, ovvero i viventi, che ogni tanto vi passeggiano per portare a loro stessi un po’ di pace. Ai morti non importa, stanno lì a guardare dalle loro lapidi, con gli occhi in bianco e nero, offuscati e velati dal passare dei secoli, quei silenti camminatori che piano piano diventano come loro. Il cimitero è il purgatorio della anime morte, che in attesa della dimenticanza o della resurrezione, subiscono il lento trasformarsi dei vivi in morti. E’ un luogo di fulminante concentrazione, i poeti trovano il giusto silenzio per attingere ai pozzi profondi del proprio spirito e pure i comuni cittadini si ritrovano a lambiccarsi sul futuro.
Matteo Gubellini si toglie il cappello e ci accompagna sapientemente proprio in questo mondo parallelo. Ci mostra un cimitero senza croci, ma con forme geometriche, simboli della solitudine e del pensiero. Case senza finestre, ma con oscure porte, piccole, dove si entra uno per volta, a capo chino. Arredato da cipressi che sembrano fiamme nere di sotterranee candele, il mondo cimiteriale di Gubellini è l’agorà dell’incontro del protagonista, un solitario, con una strana creatura. Un bufalo zannuto, selvatico, come fatto di muschi e licheni, enorme ma agile, così agile che vola. Il nostro viaggiatore cimiteriale sembra braccato ma la verità non è come appare. Proprio come in un cimitero, che è un giardino dove il pensiero elabora serenamente il mistero della morte, dove un bambino può sempre trovare un’angolo per giocare all’ombra della tomba del nonno.
Nel Cimitero è un testo breve ma che può essere apprezzato più e più volte, data l’inesauribile forza crepuscolare che lo avvicina ad un sogno lucido, un’agguerrita romanticheria degna del Gaspard de la nuit di Aloysius Bertrand o de I canti di Maldoror del Conte di Lautréamont.
Questo volume è uscito un decennio fa per Logos Edizioni, ed è per certo una piccola perla notturna da recuperare. Oggidì il suo autore ha sposato la teoria e la pratica dell’autoproduzione con Scomodincanti, un’etichetta senza ISBN, che fin dal titolo sembra voler coronare i progetti che nessun editore ha avuto il nerbo per pubblicargli. Ecco allora che escono fuori libri come Rurale, I Suoni Rimastie il prossimo Il Trionfo della Morte, volumi che risuonano con un lieve tono d’inquietudine, proprio come Nel Cimitero.
Nel Cimitero di Matteo Gubellini (Logos Edizioni)
Non Stop di Tomi Ungerer (ritardo: 14 mesi)
Vasco s’aggira per una città desolata, lui è rimasto indietro, mentre tutti gli esseri umani sono scappati sulla luna. Ogni suo passo risuona in un mondo di dimenticanza e il dolore traspare da quella miserabile, inquietante, silenziosa desertificazione. Vasco, come in una fiaba, ha la sola compagnia della sua ombra: un’ombra molto astuta e intelligente, che lo spalleggia dandogli indicazioni sicure per muoversi in quello scenario avvizzito e vuoto. Grazie all’ombra sfugge a tranelli, a crolli e devastazioni varie, per giungere alla nicchia dove un verdastro abitante, dall’eloquente nome di Niente, gli consegna una lettera chiusa. Quella lettera andrà consegnata, ed ecco che Vasco diventa un postino che scivola, corre, inciampa, nuota negli scenari che vanno a pezzi di un pianeta raschiato fino al fondo. Tutto è tenebra, il cielo nero è un deserto, senza una luce, senza una stella. Vasco arriva ad un ospedale abbandonato, dove finalmente trova la destinataria della lettera, che, in lacrime, consegna al nostro peregrino un bimbo, Poco, che dovrà essere messo in salvo a tutti i costi. E Vasco, alla ricerca del luogo magico dove poter rendere Poco felice, si lancia in una nuova avventura senza fermate, una corsa non-stop trascinato ancora una volta dall’industriosa volontà della sua ombra.
Tomi Ungerer è un maestro che ha messo la propria firma in calce ad una gigantesca quantità di lavori (circa 140), dando vita ad un corpus di ispiratissime opere, ora incantate, ora perturbanti. Non appartiene alla “categoria” del disegnatore per l’infanzia, è un disegnatore, ovvero un intellettuale che esprime il suo pensiero, le sue idee, la sua visione del mondo tramite il disegno. A volte ha rivolto la sua visione e il suo talento al mondo dell’infanzia, altre volte al mondo degli adulti, altre volte ancora, con ammirevole semplicità, l’ha rivolto ad entrambi, partorendo immaginifiche opere d’arte. Non stop, libro che ha preceduto di pochissimo la scomparsa, fa parte di quest’ultima, magica, categoria.
Un bambino non è un adulto in miniatura, il bambino è un individuo che sta crescendo. Una delle esperienze più esaltanti ed assieme spaventose della nostra vita è quella di scoprire il mondo, e di quel mondo diventare un serbatoio, un guardaroba, un ripostiglio, ogni essere umano è la mappa sintetica di una realtà molto più grande di lui. Tomi Ungerer si autodefiniva un archivista di assurdità – an archivist of human absurdity – e tutta la sua carriera è un’espressione di questa definizione. L’assoluta grottesca, cupa, mai inibita libertà con cui ha lavorato con le immagini; l’ottica da infante con cui ha tratteggiato sia la ghigna di gatti col broncio, di pipistrelli sbalestri, di giganti bevitori di birra, di briganti furbastri sia le linee e le curve asettiche di macchine linguacciute lecca-sesso, di schemi di tubi succhiatori di capezzoli, di silhouette di gioiose vamp, di ridicoli maniaci sessuali; l’ampiezza estesissima della sua empatia con il lettore; il suo gusto eclettico: questi erano – e sono – gli ingranaggi che facevano ticchettare la sua impareggiabile poetica e che mancheranno al panorama dell’illustrazione, che oggigiorno facilmente rimane a secco di genio e ricercatezza, forse proprio per un eccesso di settorializzazione del mercato.
Tomi, quattro lettere come Poco, dedica il libro ai suoi nipotini, virgulti che abiteranno il futuro, e al fratello Bernard che, dopo la morte del padre, ha fatto in modo che il piccolo (verdastro?) Tomi, potesse trovare il suo posto nel mondo, suggerendogli la via giusta per evitare i guai della vita, come l’ombra fa con il buon Vasco. Con il suo ultimo lavoro Tomi Ungerer suggella l’arcano dell’umanità, per cui ognuno gioca sempre allo stesso rimpiattino: qualcuno ci guida finché non siamo noi a dover guidare qualcun altro. E così via, sperando che la nuova generazione possa godere come una lucertola al sole della propria enclave di Paradiso e non debba essere condannata ad un’esistenza grigia e fredda sulla faccia oscura della luna.
Un libro così è un libro che ampia (e complica) il panorama della letteratura per l’infanzia e Orecchio Acerbo, di cui questo mese si festeggiano i 300 libri dati alle stampe, ha l’onore e l’onere di inserire questo volume nel suo ricco catalogo di pregiati libelli con la sensibilità – e la sottile avventatezza – che li ha sempre contraddistinti.
Non Stop di Tomi Ungerer (Orecchio Acerbo)
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