Nato qui: il bike sharing

Un estratto dal secondo numero di The Passenger, il nuovo periodico di Iperborea, dedicato all’Olanda: la storia del bike sharing, raccontata da Leonardo Piccione.

Hotel Hilton di Amsterdam, marzo 1969. Addosso un pigiama e un accappatoio, il braccio sinistro nascosto dalla chioma bruna di Yoko OnoJohn Lennon impugna con la mano libera il manubrio di una bicicletta tutta bianca.

Sulla canna la scritta «provo», nome del movimento di attivisti che quattro anni prima aveva disseminato per il centro della capitale olandese alcune biciclette usate, senza lucchetto, libere di essere utilizzate da chiunque ne avesse avuto bisogno.

John Lennon e Yoko Ono ad Amsterdam con una bicicletta Provo, durante il Bed-In organizzato nel 1969, durante la loro luna di miele [FOTO ANP 1969 / Fotografo: Ruud Hoff – sotto licenza Creative Commons]
«Queste biciclette bianche» si leggeva nel manifesto dei provocatori «vogliono simbolizzare la semplicità e la pulizia in opposizione alla volgarità e al sudiciume dell’automobile.»

Luud Schimmelpennink, l’ingegnere industriale ideatore dell’iniziativa, aveva tratto ispirazione da una risoluzione adottata nel corso del Seicento dal Consiglio comunale di Amsterdam. Alle prese con la rapida espansione della città e l’eccessivo traffico, gli amministratori dell’epoca avevano stabilito l’obbligo per tutti i viaggiatori di parcheggiare le carrozze nei sobborghi cittadini e di proseguire a piedi verso il centro.

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Lo scopo delle biciclette bianche dei «provos» era il medesimo. Più che una provocazione, la loro era un’invenzione. Nei decenni successivi alla sua prima introduzione, in effetti, il bike sharing avrebbe rivoluzionato il concetto di mobilità in metropoli come Copenaghen, Parigi e Vienna; a cavallo del nuovo millennio avrebbe lentamente conquistato le più restie città americane, e in Cina il numero di bici condivise avrebbe sfiorato il milione.

Eppure il tentativo di Amsterdam – quello originario, sponsorizzato da John Lennon e Yoko Ono – durò molto poco. Oltre alla prevedibile resistenza delle forze dell’ordine (che rimossero le biciclette bianche ritenendo illegale il loro essere slegate), il problema del primo bike sharing fu un altro, più sostanziale: la maggior parte dei cittadini di Amsterdam possedeva già la propria bicicletta. Gli olandesi adorano le due ruote da sempre, o almeno da quando – era l’inizio del Novecento – realizzarono che quel mezzo di trasporto così essenziale si sarebbe sposato alla perfezione con la natura dei Paesi Bassi. Non c’è luogo più adatto a pedalare che l’interminabile pianura oranje; non ci sono distanze più semplici da coprire che quelle – minime – tra una località olandese e l’altra.

Amsterdam, una manifestazione Provo nel 1965

Infatti oggi l’Olanda è l’unico paese al mondo in cui ci sono più biciclette che abitanti: 18 milioni contro sei e mezzo. La sola stazione di Groningen offre ai pendolari qualcosa come diecimila parcheggi per velocipedi.

Ad Amsterdam due terzi degli spostamenti avvengono su due ruote, mentre a Utrecht il corriere Dhl ha sostituito alcuni camioncini da consegna con apposite bakfiets (una specie di bicicletta cargo, dotata di un grosso cesto nella parte anteriore, molto olandese e molto trendy). L’uso della bicicletta in Olanda è talmente intensivo che le piste ciclabili del paese, nonostante siano di gran lunga le meglio attrezzate d’Europa, risultano ormai sovraccariche. È stato suggerito che se l’automobile rappresenta il prolungamento della libertà individuale degli americani, la bicicletta dovrebbe essere considerata l’appendice naturale del pragmatismo olandese. La faccenda identitaria Olanda-bicicletta è seria al punto che la salita più famosa del ciclismo internazionale è intitolata a questo popolo che per definizione non conosce rilievi (il punto più elevato è il colle di Vaalserberg, a 321 metri sul livello del mare), e che rivendica non senza orgoglio che «sono i venti contrari le nostre montagne».

L’Alpe d’Huez, vetta simbolo del Tour de France, è senza discussione alcuna «la montagna degli olandesi». Nelle prime 14 edizioni in cui è stata affrontata dalla Grande boucle, otto volte ha visto il dominio di un corridore dei Paesi Bassi. Nonostante la vittoria di un proprio beniamino manchi da una trentina d’anni, ogni volta che il Tour scala l’Alpe il rito si rinnova: migliaia di tifosi vestiti di arancione accolgono il gruppo in un
corridoio umano assordante.

Il segreto di cotanto giubilo si perde tra sacro e profano. Per farsi un’idea è sufficiente dire che negli anni Ottanta il parroco della chiesa dell’Alpe d’Huez – Jaap Reuten, un olandese – riuscì a raccogliere i fondi necessari al miglioramento del tetto dell’edificio facendosi donare dalla Heineken dieci centesimi di fiorino per ogni birra consumata nei giorni del Tour all’interno dell’area sacra. L’inviato de L’Équipe Antoine Blondin
commentò la trovata del reverendo con una memorabile chiosa: «Tu sei birra, e su questa birra costruirò la mia chiesa.»

Puoi leggere questa e altre storie sull’ultimo numero di The Passenger, dedicato all’Olanda che trovi nel nostro shop, cliccando sulla foto qui sotto:

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