L’inferno nelle bottiglie di Maruo Suehiro (ritardo: 7 mesi)
Vengono qui riprodotti da Coconino Press quattro racconti apparsi in Giappone tra il 2010 e il 2012. Già con le brevi storie di Notte Putrescente il maestro Maruo Suehiro aveva dato sfoggio della sua depravazione elegante e sacrale (che è il cuore pulsante dell’Ero guro), e anche in questa occasione si sofferma, con la consueta grande abilità, su quattro gemme che splendono intense nel panorama della sua opera recente.
Maruo è considerato da anni un maestro. E come ogni maestro è un po’ santo e un po’ mostro. È intoccabile, incorrotto, inafferrabile. Tutto d’un pezzo. Il suo stile di disegno composto e pulito non fa che esaltare la sua radicale gravità, degna del prodigio. Senza via di mezzo unisce il sacro con il profano, volentieri confondendo il paradiso con l’inferno e viceversa, ed è forse questa trascendenza, definitivamente depravata, che rende così affascinante il suo lavoro.
Come aveva già fatto per il suo morboso successo, Il Bruco – dove aveva tradotto in immagini il racconto dell’eccelso Edogawa Rampo (l’Edgar Allan Poe del Sol Levante) – nel primo racconto di questa collezione si ispira alla penna di uno scrittore, Yumeno Kyūsaku, per cesellare un nuovo raffinato capolavoro. Ne L’Inferno nelle bottiglie leggiamo di due ragazzini naufraghi su di un’isola deserta. Sono fratelli e lei è più piccola di lui di pochissimi anni, come nel film Laguna Blu. L’isola si rivela un Eden miracoloso, ricco com’è di risorse e rigogliosa bellezza (e quando Maruo disegna la bellezza, non ce n’è per nessuno). I piccoli protagonisti vivono in quel mondo ideato – e disegnato – apposta per loro come in un diorama sospeso, sotto la tutela di un Dio invisibile, ma buono. Eppure, quando tra i due la tentazione della carne diventa spudorata, quello stesso Dio magnanimo lascia per dare spazio all’Inferno più subdolo e tormentoso. Ciò che era Bellezza si rivelerà la soffocante propaggine della putrefazione dell’anima. I due protagonisti disperatamente cercano una via d’uscita da quell’incubo, ma il loro fervente spirito religioso li porterà alla rovina.
Nel racconto seguente ci facciamo due succose risate con una riedizione de Le tentazioni di Sant’Antonio: un prete è tormentato più che dal Peccato dal Destino, che lo sottopone alle più mortificanti torture. La sua bontà travisata, la sua pazienza fraintesa; viene dileggiato in ogni maniera dai suoi stessi piccoli fedeli. Essere un prete cristiano per un giapponese non deve essere facile. I giapponesi hanno un senso della religione diffuso e irregolare, che mal si concilia con il solido culto di un solo dio. Tutto trema grottescamente, soprattutto nel perimetro di una religione che ha fatto dei dogmi e delle certezze la sua forza, quando il dissacratore Maruo è nei paraggi. Questo non toglie che il complesso di raffigurazioni cristiane su Maruo sortisca una poderosa carica: il crepuscolo occidentale è da sempre fonte inesauribile per il maestro orientale, il quale oltre a riverire la grande tradizione dell’ukiyo-e ha fatto dell’iconografia esoterica europea uno dei suoi riferimenti principali.
Viene subito dopo un grande racconto, dall’impianto classico, intitolato Koganemochi. È un racconto in cui i personaggi si muovono sudati e sordidi, poveri fino all’osso, solo apparentemente civilizzati e proprio per questo ancora più distorti e contorti nei loro miserevoli ragionamenti. La storia gira attorno ad un mucchietto di soldi, pochi soldi sparuti, ma che fanno gola a coloro che non hanno nulla e che vivono come ratti attorno al rivo della cloaca. Il protagonista di questa nerissima vicenda è un massaggiatore. Il vero fascino deriva però dal contesto, una baraccopoli, dove promiscuamente si vive con il sedere attaccato a quello del vicino e dove gli affari di uno diventano sempre gli affari di tutti. E se non intravediamo il lerciume di Brutti, Sporchi e Cattivi di Ettore Scola, comunque, poco ci manca.
Infine è il turno di Povera Sorella. E questo è un racconto che più degenerato non si può. La piccola Hanako, rimasta orfana, scappa con il suo fratellastro, un demente, strabico, incapace di badare a sé stesso e brutto come le terga del diavolo. Eppure è il suo “fratellino”, ed è l’unica famiglia che ha la ragazzina. Il destino della fanciulla è presto detto: prostituzione, gelo e povertà. Lancinante nelle domande che si pone (“Perché questa sorte è toccata solo a noi?”), bieco nell’orribile disegno che ci offre della società giapponese, malinconico, sentimentale, crudo come una sferza di cuoio che colpisce sempre nella carne più debole, costantemente distante, ossessivamente raffinato – come se l’autore non disegnasse fumetti, ma dipingesse porcellane – dall’espressione mai leziosa, anzi personale e accattivante, Povera Sorella da solo varrebbe l’impegno di leggere questo intero volume.
Fare fumetti è un questione di equilibrio tra l’alto e il basso. È una missione assolutamente votata al denaro, dove l’adulto deve combattere con il bambino nelle faccende lavorative e il bambino sostenere l’adulto nell’atto creativo. Si rischia la schizofrenia, o comunque uno stato di disagio continuo. Dopo un’infanzia silenziosa (il suo rapporto con i genitori è in pratica nullo) e un’adolescenza burrascosa (furti e qualche settimana in galera), Maruo trova una forma di riscatto pubblicando nel 1980 contenuti erotici su riviste pornografiche. Ben presto le sue capacità si fanno strada e la sua poetica morbosa e sottile viene riconosciuto in tutto il mondo. Moebius, in tempi non sospetti, ha detto che la sua opera riflette “Uno sguardo pieno di compassione, ma allo stesso tempo accecato da una rabbia terribile”. L’Occidente, decadente e perverso, descritto da Georges Bataille in Storia dell’occhio è l’ossessione di Maruo. I suoi occhi sono occhi strabici, asincroni, come quelli dell’Arcano XV dei Tarocchi, il Diavolo; sono occhi che rivelano la lascivia di ognuno dei suoi personaggi.
Un teschio coperto di vermi, una cavalletta, una rana che galleggia assieme a dei vermi in un calderone, i vestiti alla moda di un’adescatrice diciannovenne, ogni cosa è vergata come se fosse frutto di un intenso rituale preparatorio. Perturbante il richiamo costante alla carne delle inermi fanciulle macinate da un mondo brutale, al tema ammiccante dell’incesto e della prostituzione, dello stupro, delle abominevoli amputazioni, che però trova la sua controparte nella sottolineatura della freddezza di una società irrigidita e costipata, del ruolo avvilente della donna nel Giappone moderno e contemporaneo, del militarismo sfegatato ed ottuso, tipico del periodo Showa (pressappoco gli anni che vanno dal primo dopoguerra alla morte dell’imperatore Hirohito) durante il quale Maruo ama ambientare le sue storie e di cui personaggi spesso sono l’emblema vivente.
Midori, Il Vampiro che Ride, Tomino la Dannata e tante altre, sono innumerevoli le opere prodotte ed innumerevoli i capolavori forgiati – quasi a colpo sicuro – da questo prolifico autore. Coconino Press, con avveduta pazienza, le sta raccogliendo tutte in una veste grafica adeguata e in un’edizione degna di nota e dal prezzo sempre accessibile. Cosa si può volere di più?
L’inferno nelle bottiglie di Maruo Suehiro (Coconino Press)
Contro i Bambini di Rosalba Santoro (ritardo: moderato, due anni e mezzo)
Un libro di quelli che “non l’avrei mai detto”. Al contrario del solito comincio facendo i complimenti a Il Saggiatore per la coraggiosa scelta di pubblicare questo volume minimo con quel titolo – precisa scelta (postuma) dell’autrice. Contro i bambini: non ho bambini, e non mi interessa tutelarli o proteggerli, ma chi non sarebbe stato subito catturato da quel titolo così controcorrente? Ho sfogliato il libro, aprendolo a caso, come si fa con gli oracoli o con i fumetti porno, e la prima frase che è balzata fuori è stata questa: “Due settimane a scuola e sinceramente già non ce la faccio più”. Sentimenti disturbanti, sfacelo mentale, criticismi: chiudo il libro, pago e me lo porto a casa. Faccio così la conoscenza di Rosalba Santoro. È abruzzese, come me – che coincidenza – ed ha insegnato in piccoli paesi pedemontani, ad un passo dalla Majella, luoghi che conosco assai bene – altra innegabile coincidenza.
Trattasi di libro ritrovato. Rosalba prende appunti, riferisce memorie e pensieri su di un diario libero, fatto di fogli e foglietti, per tutto il percorso della sua vita lavorativa. Che lavora fa Rosalba? Fa la maestra. Un’avventura che gli occupa l’esistenza dagli anni settanta agli anni novanta. Vive per 75 anni in un paesello di non più di diecimila abitanti. Dopo la sua morte, i parenti rassettano le sua casa e scovano qualcosa che mai si sarebbero aspettati: le memoria di Rosalba. Della maestra Rosalba, per la precisione. E di scuola, insegnamento e bambini parla il faldone accuratamente riposto, con tanto di nota introduttiva per chi l’avesse trovato tra le sue cose una volta che lei se ne fosse andata.
Il sottotitolo del volume recita Memorie di una brava maestra, ma non è affatto una brava maestra la persona che ha scritto quelle pagine. Ma cosa vuol dire essere brave maestre? Cos’è una brava maestra? Forse è una creatura solo convenuta, stereotipo programmato dal ministero, che nella realtà non è possibile che esista. Non sono robot le maestre (e i maestri), sono esseri umani e come tutti gli esseri umani esauriscono la pazienza, alzano la voce, scattano, sbraitano, vengono divorati da nevrosi, sconfortati dai sensi di colpa.
Quanto può essere sfaccettata l’esistenza di una persona? In maniera incredibile. Rosalba rimane vedova presto ma non prestissimo, a 55 anni, ha abbastanza tempo per capire la vita con e la vita senza un compagno al fianco. Non ha figli perché non voleva farsi tormentare anche a casa da quelle creature incomprensibili, insopportabili, che risucchiano tutte le sue energie, fino all’ultimo. Lavora, precisa e puntuale, senza (quasi) mai cedere alle debolezze della sua professione – uno schiaffo, una punizione data d’istinto. Arriva a godere dei piccoli piaceri della sua professione, come arrivare mezz’ora prima in aula e apprezzarne la luce, il silenzio, i ritmi, la routine della ramazza data dal bidello. Non ha voglia di scoprire il mondo, se non in certe gite organizzate, sempre in sicurezza, sempre con la garanzia di tornare alla sua dimora, illesa, stupefatta dal mondo, così terribile rispetto alla sua casa dolce casa. È orgogliosa della pensione che quel lavoro, che ha sfibrato e consumato tutta la sua vita, gli ha assicurato.
Cosa passa per la testa di una maestra? Non lo sappiamo. Cosa passa per la testa della mostra Rosalba Santoro, invece, lo sappiamo perfettamente. Rosalba annota ogni sua considerazione, con stile ingenuo, limpido, sincero. È ora severa, ora indulgente con se stessa e i suoi pensieri, proprio come se si trattasse di riprendere un suo alunno. I corridoi, le sale professori, i cessi degli istituti sono la schietta scenografia di un presepe sereno e tormentato, contorto ed esaltante. I diari di Rosalba sono eseguiti perfettamente come compiti di italiano, ma sempre si inciampa in qualche considerazione secca e robusta, logica e affascinante che ti fa inarcare la schiena e aggrottare la fronte. Sulle tue labbra: “Ma dice sul serio? È questo quello che si prova ad essere una maestra?”, o ancora meglio: “Può una maestra di un paesino di montagna pensare queste cose?”. È travolgente. Una vera e propria scarica di adrenalina ad ogni rigo. Un paragone per niente incoerente è lo Stoner di John Edward Williams, ma non tanto perché anche lì il protagonista è un insegnante, ma per il fatto che anche lì c’è la stessa radicale immediatezza delle immagini e lucidità di pensiero. Certo, toni e sfumature sono del tutto diversi, ma il racconto di Rosalba non si risparmia niente e, come quello di Stoner, arriva a descrivere le profondità della vita con la delicatezza di un palloncino arancione e il realismo di un bisturi che affonda nella carne inerme. Ed in più, è tutto vero. È tutto frutto di una testimonianza diretta, di chi alla sera, chinava il capo e concedeva al suo spirito un attimo di sfogo – o di requie, chi lo sa? – dopo una giornata di estrema, ferrea compostezza, rassettando i pensieri, come se fossero i grigi lenzuoli di un corredo.
“I bambini sono abissi”, dice Rosalba in uno dei suoi passaggi più inquietanti del suo memoir. Rosalba non è una strega e nemmeno un caso clinico di freudiana memoria. Ha scelto di non avere figli, e possiamo indagare quella scelta fino ad un certo punto, non di più. I bambini sono abissi, ma sembra quasi che Rosalba, questa umile, determinatissima donna, votata alla vita pacifica della tisana alla verbena alla sera “per distendere i nervi”, figlia di un mondo che quasi non esiste più oggigiorno, nonostante tutto, si faccia tentare e, più coraggiosa di tutti, scocca uno sguardo oltre il fiume, per scorgere la sponda oscura dall’altra parte. E allora intravede qualcosa: il mistero insito nella vita. Come fa un moccioso a diventare una adulto serio, affidabile e coscienzioso se è stato, sotto i suoi occhi, un uragano indisciplinato di caos, cattiveria ed egoismo? Rosalba capisce, ma non vuole capire: una cosa tipica di chi abita nella mia regione. Il mistero della crescita e della maturità, che lei ha esperito solo soggettivamente, diventa un film dell’orrore: lei deperisce, i suoi alunni crescono. Lei rimane sola, loro fanno famiglia, crescono nuovi figli, nuovi sgorbi rumorosi che faranno impazzire nuove maestre. È questo l’abisso terribile che intravede l’ingenua Rosalba e che a volte arriva a togliergli il fiato, altre volte la lascia solo muta e un po’ pensierosa mentre innaffia le piante nella stanza che lei chiama “Il giardino della vita”.
Contro i Bambini di Rosalba Santoro (Il Saggiatore)
Sono Papà Schnapp di Tomi Ungerer (ritardo: consistente, tre anni)
Si tratta di sedici brevissime storie, che hanno in comune il fatto che si soffermano su certi aspetti antipatici, sgradevoli e grotteschi della vita dei loro protagonisti. Secondo lo stilema classico i personaggi sono tutti animali antropomorfi, ma mancano del tutto i finali rinfrancanti col tipico “vissero felici e contenti”.
Per esempio: Arturo Topper, topo di nome e di fatto, dopo una lite con i propri genitori, estorce alla famiglia la vasca da bagno e, con quella come zattera, se ne va per mare armato di fionda, con cui affonda una gigantesca corazzata; il Signor Fogna, un gran porco di nome e di fatto, si ingozza come un pozzo senza fondo al suo ristorante preferito per poi precipitare al piano di sotto, sfondando il pavimento per il peso eccessivo; due coniugi vecchi e felici, l’una zoppa, l’altro cieco, si godono le loro improbabili passeggiate. E poi altre storie affabili, gagliarde, cattive, anche le più delicate, ma tutte figlie sincere di una mente brillante e girovaga: quella del maestro Tomi Ungerer che nella sua spassosa carriera ha firmato centinaia di libri e ha visto diffusa la sua opera in tutto il mondo.
L’intera curriculum di Ungerer (in cui possiamo trovare di tutto, da pipistrelli burloni a macchine complicatissime per la masturbazione), si basa sullo sberleffo: a volte sadico, a volte docile, a volte per bambini, a volte vietato ai minori. Le controstorie di Sono Papà Schnapp hanno una paternità, appunto il Papà Schnapp. Schnapp è un personaggio farsesco che appare nel frontespizio. Ha la testa ficcata in un libro e il becco che passa amaramente dall’altra parte, è seduto su di una poltrona, ma con gli sci ai piedi, come se fosse pronto a scappar via. È un collezionista di storie – chi non lo è, infondo? – e si diverte a mettere insieme le vicende che ha raccolto in questo libro che porta il suo nome scattoso – Schnapp (Snap, nell’originale inglese – la prima edizione è stato pubblicata a New York nel 1971) dà l’idea della trappola che scatta, delle fauci del caimano che calano sulla vittima ignara. Nell’ultima storia addirittura lo scorgiamo tragicamente perire in azione, mentre, sotto gli occhi del proprietario, viene sopraffatto da un divano divoratore. E caduto Schnapp in trappola, come se il destino gli avesse voluto giocare un scherzetto sornione, si conclude anche la collezione delle controstorie del suddetto.
Finito il libro si apre il dibattito. È un libro per bambini? È un libro per adulti? Nessuno dei due? Entrambi? Godo magnificamente a leggere questa valutazione – che ho reperito su Amazon (bleah) – a proposito di questo volume: “Trovo che sia orrendo […] Non trasmette nulla di buono […] Non capisco perché lo consigliano a dei bambini.” Che dire? L’utente di sicuro si aspettava altro, è rimasto, come dire, SORPRESO. E forse è proprio questo il bello dei libri illustrati: sorprendono. Servono per crescere? Come tutte le letture, probabilmente sì. Ma cosa vuol dire crescere? Se s’intende creare un modello addomesticato, funzionale, omologo all’originale, allora no, non ci siamo. I libri illustrati non servono per niente a questo – almeno non dovrebbero. Crescere vuol dire toccare tutte le corde di un’arpa ardita e complessa, e pure la cattiveria – divertita e gagliarda – fa parte di questo temibile strumento che va irrinunciabilmente temperato in ogni suo accento.
Questo è un libro che gioca gran parte del suo carisma nei dettagli: insetti dagli occhi rossi, ripugnanti polli al forno che sifonano liquami, beffardi quadri messi al contrario, mesti bruchi investiti sotto le scattanti ruote di una modello T, budini infilzati da grossi coltelli, bulldog incazzati come piloti di taxi, uova marce, orribili cetrioli, disgustosi pitali, uccelletti morti nella loro gabbietta, piante carnivore dall’aspetto dichiaratamente sessuale, porta bastoni decorati con i tersi guizzi di un bombardamento aereo, birre, sigari, tenute militari – tutte cose che esaltano i bambini e terrorizzano i genitori. Questo libro è magico e cinico assieme, ed è la prova, anzi la controprova, che gli autori di libri illustrati sono intellettuali a tutto tondo e non semplici pantografi dei sentimenti ameni e mielosi.
Per Tomi Ungerer l’Edizioni Clichy ha una grande passione: consigliatissimo per fattura e acutezza anche il pregevole The Underground Sketchbook, che raccoglie i giuochi scherzosi del maestro francese che non ne sbaglia una nemmeno quando si tratta di tirare una linea su di un foglio. Chapeau!
Sono Papà Schnapp di Tomi Ungerer (Edizioni Clichy)
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