Ziggy goes to URSS

La notte del 10 febbraio 1972 una rockstar dalle sembianze aliene fece la propria apparizione in un piccolo pub di Londra, il Toby Jug. Davanti a una sessantina di persone, quel tipo dall’aspetto androgino, volto scavato, capelli rosso fuoco e vestiti pailettati si stava apprestando a scrivere il primo capitolo di una storia destinata a rimanere scalfita nella cultura pop. Si trattava di Ziggy Stardust che, insieme ai suoi fedeli compagni di viaggio degli Spiders from Mars, sulle note dell’Inno alla Gioia di Beethoven, rivisitato da Wandy Carlos, annunciava al mondo lo sbarco sul pianeta terra. In pochi tra quei sessanta fortunati potevano immaginarsi che quel giorno avrebbe segnato l’ascesa di David Bowie nell’olimpo dei grandi della musica.

Bowie all’epoca non era proprio un signor nessuno: aveva già dato alle stampe quattro album, che tuttavia non erano stati in grado di accendere, su quel personaggio eccentrico e allo stesso tempo enigmatico, l’attenzione desiderata. L’artista di Brixton covava dentro di sé il desiderio di spingersi oltre, di scandalizzare e stravolgere lo status quo nel quale era rimasto infangato l’intrattenimento pop. Il suo obiettivo era portare il teatro nella musica, di calarsi nei panni di un personaggio disorientante che avrebbe vestito da li a quando la sua parabola non fosse arrivata a compimento (The Rise and Fall of Ziggy Stardust, per l’appunto).

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Non a caso, a qualche settimana da quella che sarebbe stata la prima esibizione di Ziggy Stardust in pubblico, in un’intervista al Melody Maker – con lo scopo di calamitare il più possibile le attenzioni su di sé – Bowie rivelò al mondo di essere omosessuale, svelando di fatto quello che sarebbe stata una delle caratteristiche più importanti del suo “nuovo” personaggio. Allo stesso tempo annunciò che da lì a poco avrebbe cominciato a portare in giro uno «spettacolo sconvolgente… veramente sconvolgente, ma molto teatrale. Ci saranno costumi e scenografie molto differenti da ciò che fino ad ora chiunque abbia tentato di fare. Sarà divertente, proprio quello che manca oggi nella musica pop, il divertimento!».

C’era quindi da aspettarsi che Ziggy si presentasse al mondo con il botto. Invece le prime date, oltre a tenersi in piccoli locali, apparvero praticamente prive di quegli eccessi teatrali che avrebbero caratterizzato i concerti in un secondo momento. Nonostante questo ci volle poco a Bowie per mettere in moto la macchina.
La prima tournée britannica e la successiva spedizione alla conquista dell’America consacrarono Bowie come vero e proprio avanguardista pop. Dopo aver portato il suo personaggio in lungo e in largo per l’Occidente, attirando su di sé lo sprezzante sconcerto dei più puritani, ma conquistando il cuore di nuovi adoranti fans, si spinse a Oriente dove poté fare incetta della peculiare tradizione nipponica, attingendo a piene mani dall’arte teatrale e dai costumi orientali.

In Giappone Bowie restò per circa due settimane (dal 5 al 21 aprile 1973), tenendo nove concerti tra Tokyo, Nagoya, Hiroshima, Kobe e Osaka. A sorpresa ad attendere Ziggy Stardust vi era un pubblico in visibilio. Durante quelle nove date, tutte completamente sold-out, si assistette a scene al limite della follia, tanto che il Japan Times parlò del tour di Bowie come «l’evento più straordinario dallo scioglimento dei Beatles. Dal punto di vista teatrale Bowie è forse l’artista più interessante della musica pop». Nel soggiorno giapponese Bowie ebbe modo di immergersi nell’arte No e Kabuki, imparare nuove tecniche di trucco da Tomasu Boru, uno dei più celebri attori kabuki, approfondire la storia del romanziere Yukio Mishima e conoscere da vicino il lavoro dello stilista Kansai Yamamoto che disegnò per lui diversi abiti.

Il giorno successivo all’ultima data di Tokyo, la rockstar inglese dovette quindi salutare a malincuore quella terra tanto amata, per lui vera e propria fonte di ispirazione. Ma mentre la band e il resto dell’entourage si imbarcava in un volo diretto a Londra, Bowie, insieme al suo amico e all’occorrenza suonatore di bonghi Geoffrey MacCormack, non ne volle sapere di mettere piede sull’aereo che lo avrebbe dovuto riportare a casa. A quelli che gli chiedevano il motivo di tale decisione Bowie si limitava a rispondere: «ho avuto un sogno premonitore in cui rimanevo vittima di uno schianto aereo. Solo se non succederà nulla entro il 1976 tornerò a volare».

Insieme a MacCormack decise quindi di intraprendere quello che all’epoca rappresentava uno dei viaggi più duri ed estenuanti, per quanto affascinanti, della terra: partenza da Vladivostok, arrivo a Mosca attraverso la Transiberiana. Nel 1973 quello lungo la Transiberiana era considerato come “l’ultimo grande viaggio in treno sulla terra”. Novemila chilometri da percorrere in sei giorni il cui tempo era scandito da un paesaggio spoglio e incontaminato e dall’attraversamento di ben sette fusi orari.

Per arrivare su territorio russo dal Giappone, David e Geoff dovettero viaggiare a bordo di una nave, la Felix Dzerzhinsky (dal nome di uno dei fondatori della polizia segreta sovietica). Qui vennero subito avvicinati da due uomini, all’apparenza innocui, che parlavano un inglese traballante. Iniziarono con loro una conversazione che toccò diversi temi, tra cui la politica. Solo dopo diverse ore Bowie e il suo amico si resero conto di aver avuto a che fare con i primi due agenti KGB in borghese della loro avventura.

Al loro arrivo in terra russa gli vennero consegnati diversi souvenir, tra cui: un libro intitolato Marx, Engels and Lenin on Scientific Communism, un volantino che criticava i celebri personaggi di fumetti Tom e Jerry (tacciati come minaccia per la crescita e la formazione dei bambini russi) e un altro opuscolo che conteneva al suo interno delle istruzioni per turisti, nel quale veniva specificato cosa fosse possibile fotografare in URSS.

Nei panni di Ziggy Stardust, Bowie non passava di certo inosservato. Il suo look, caratterizzato da camicie e giacche scintillanti, pantaloni colorati e stivali in pelle di serpente, era agli antipodi con l’austerità che caratterizzava lo stile dell’uomo sovietico. In un primo momento ciò che lo stupì maggiormente fu l’accoglienza che i locals gli riservarono per gran parte del viaggio. Nonostante l’URSS veniva descritto agli occidentali come un paese chiuso e diffidente, ben presto Bowie si rese conto che la diffidenza faceva spazio a un’ospitalità estrema, a tratti asfissiante.

Una volta a bordo del celebre Trans-Siberian Express Bowie rimase esterrefatto: «era come se fossi immerso in un’altra epoca, in un altro mondo. Era strano essere seduti su un treno, prodotto della tecnologia e dell’intelligenza umana, e allo stesso tempo attraversare una terra intatta e incontaminata dall’uomo e dalle sue invenzioni».
Durante il viaggio Bowie suonò alcune sue canzoni davanti a un pubblico di sole due persone, Danya e Nadia, che rimasero folgorate difronte al fascino di quell’essere dalle sembianze aliene. Le due ragazze divennero ben presto amiche dell’artista inglese e di MacCormack, dando loro consigli sulla cultura e sulle tradizioni russe, procurandogli cibo (yogurt kefir, panini e ravioli) e, almeno in un’occasione, tirandoli fuori dai guai.

Durante una sosta Bowie, cogliendo l’occasione per darsi una sgranchita, venne infatti sorpreso da un poliziotto in borghese a fare delle riprese non autorizzate. L’agente sovietico, una volta chiesto all’artista inglese di consegnargli il materiale, e sentendosi rispondere picche, andò su tutte le furie. Le ragazze trascinarono Bowie sul treno, blindando le porte fino alla partenza affinché il poliziotto non potesse raggiungerlo.

Questo non fu certo l’unica nota stonata del viaggio. Alla stazione di Erofey Pavlovich, ebbe modo di raccontare in seguito il reporter Robert Musel, alcuni militari lo videro scendere dal treno con addosso un cappotto giallo con colletto di pelliccia. Disturbati da quell’immagine, per loro assolutamente inedita, domandarono alla ferroviera di chi si trattasse. Quando questa rispose loro che si trattava di «una stella della musica pop», uno dei militari sentenziò «questo potrebbe accadere solo nel decadente Occidente».

Il Trans-Siberian Express intanto proseguiva la sua lenta corsa (così lentamente che il mondo dava l’impressione di dilatarsi a vista d’occhio). Superate le numerose stazioni nella quali troneggiavano statue di Lenin argentate, dorate e in pietra, Bowie ebbe modo di ammirare il lago sacro di Bajkal, attraversare le cittadine di Irkutsk (meta di esilio per Trotsky), Sverdlovsk – teatro del massacro dello zar Nicola durante la Rivoluzione Russa – e percorrere il fiume Volga a Jaroslavl, quello che per molti russi rappresentava una sorta di luogo mistico. Ma mentre il treno si apprestava a entrare a Mosca, l’atmosfera cominciava a farsi più pesante. Il calore fino allora trasmesso dai sovietici andava scemando.

Bowie e MacCormack arrivarono a Mosca il 30 aprile. Vi si fermarono per circa tre giorni ed ebbero quindi modo di assistere alla parata del Primo Maggio. Si dice che il cantante inglese rimase colpito dall’enorme numero di persone unite da un obiettivo comune.
Affascinato e meravigliato dall’estrema parità di sessi («Mi svegliai nel mezzo della notte e dal finestrino vidi tre donne anziane che indossavano giacche trapuntate e pesanti stivali che trasportavano latte di petrolio… Chissà cosa ne penserebbe la Women’s Lib») e dall’immensità di un paese orgogliosamente ancorato alla sua storia, Bowie non rimase insensibile alla dura miseria in cui si era imbattuto nella Siberia più estrema («Non capisco come facciano a sopravvivere tutto l’inverno»), tanto che al giornalista del Melody Maker, Roy Hollingsworth confidò: «Dopo quel che ho potuto vedere, non ho mai avuto tanta paura in vita mia».

Di ritorno dal viaggio in Unione Sovietica Bowie, nei panni di Ziggy Stardust, riprese la tournée in Europa e Stati Uniti. Fu un successo incredibile, fino alla data del 3 luglio all’Hammersmith Odeon di Londra quando, «mentalmente ossessionato dal mostro che aveva creato, si sentì costretto a distruggerlo proprio sul palco prima di restare vittima lui stesso, strangolato dalla maschera» che si era cucito su misura. La perfetta messa in scena di un suicidio rock’n’roll, il resto è storia.

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